il retroscena

Ulivo secco sia a Roma sia a Bruxelles. Così il pastrocchio del Pd capitolino azzoppa Letta (che s'eclissa)

Valerio Valentini

Prima la guerriglia tra i vertici dem romani. Poi, d'accordo con Zingaretti, la scelta di ripiegare su Conte. Sabotaggi e veleni al Nazareno. Conte ricompatta Renzi e Calenda, poi si defila. E intanto viene rinviato anche l'ingresso del M5s nei socialisti del Parlamento europeo. Problemi di staff e di strategie.

Matteo Renzi in questo caos è convinto di vederci comunque un senso: “Io ve l’ho detto che nel Pd hanno voglia di elezioni anticipate”. Chissà. Non volendo cedere a questa ipotesi non esattamente gradita, il capannello di senatori dem che si ritrova davanti alla buvette,  quando vede evaporare l’ipotesi della candidatura di Giuseppe Conte, tira un sospiro di sollievo che è  uno sbuffo di scoramento: “Siamo inciampati restando fermi”. E’ finita infatti con l’aborto di un progetto neppure varato. Ed Enrico Letta, che quella strada l’aveva imboccata in tutta fretta  per uscire dalla palude romana del suo partito, si ritrova a osservare a distanza, da Parigi, le radici già secche del suo Ulivo 2.0. 

Carlo Calenda, parlando coi suoi ufficiali capitolini, ne fa anzitutto una questione di metodo. “Se c’era un luogo in Italia in cui, pur nella logica  del campo largo da costruire, sarebbe stato logico per il Pd privilegiare un dialogo con noi, questo era proprio il centro di  Roma, visto alle ultime comunali questa città, specie al centro, ha sancito un anatema contro il grillismo. E per questo da settimane ho chiesto a Letta, in due momenti diversi, di concordare su un nome condiviso. E lui per due volte mi aveva  rassicurato”. E invece niente. Il segretario del Pd ha scelto un’altra soluzione. Concordata nel fine settimana proprio col suo predecessore. 
E’ a Nicola Zingaretti, infatti, che l’ex premier ha chiesto la conferma definitiva della sua indisponibilità a candidarsi nel collegio del centro di Roma, quello che fu di Paolo Gentiloni prima e di Roberto Gualtieri poi; e dopo averla ricevuta (“Non posso lasciare la regione senza una guida per entrare in Parlamento a un anno dalla fine della legislatura”, è andato ripetendo il presidente del Lazio), a quel punto Letta ha sondato “l’altro nostro jolly”, ovvero Conte.

L’ipotesi del resto era stata già vagliata dalle rispettive diplomazie: ambasciate di Dario Franceschini, dispacci tra Roberto Fico e Francesco Boccia. E insomma alla fine Conte la grande proposta se l’è sentita fare, ufficialmente, nella giornata di sabato. Anche perché, per Letta, quella diventava l’unica scelta, per quanto azzardata, per sottrarsi al fuoco incrociato dei dirigenti  del Pd romano, agitati come non mai dopo le mezze scazzottate capitoline tra il neo sindaco e i vari papaveri capitolini. Enrico Gasbarra che non piaceva a Claudio Mancini; Annamaria Furlan che non convinceva Goffredo Bettini e gli ex zingarettiani, i quali invece caldeggiavano Cecilia D’Elia, che pure lei scalpitava. Il tutto con Peppe Provenzano, vicesegretario, che non mancava di ricordare di quando, in vista delle suppletive di Primavalle di inizio ottobre, aveva sondato i vertici del M5s per capire se una sua candidatura sarebbe stata appoggiata, ricevendo però dagli alleati  una sostanziale stroncatura. Insomma, tutta una teoria di affiliazioni più o meno scombiccherate, di risentimenti personali e maldicenze che s’andavano ingrossando tra il vero e il verosimile. Un pasticcio rispetto al quale Conte rappresentava lo spariglio.  “Però avremmo voluto gestirla in tutt’altro modo, la comunicazione di questa partita”, si sfogano adesso al Nazareno. Dove invece, sabato pomeriggio, si sono ritrovati a dover canalizzare gli spifferi dei sabotatori interni, e hanno allora provato a ufficializzare qualcosa che ufficiale ancora non era, come che cosa fatta capo avesse.

Ma l’ipotesi di benedire Conte per far uscire il Pd dal guado ha invece prodotto l’effetto di indisporre ancor più il fu avvocato del popolo, e contemporaneamente di sfilacciare il già sdrucito ordito rossogiallo. Al punto che anche il matrimonio che sembrava prossimo, e cioè quello a Bruxelles, per ora è rimandato. La causa impediente, al momento, ha a che vedere con lo staff: i grillini vorrebbero portarsi dietro gli otto consulenti legislativi, il Pd gli impone di sacrificarli, per questioni di opportunità e di economia segnalate anche dagli alleati socialisti spagnoli. “In più da Roma, dove sembravano convinti, ora riceviamo messaggi ambigui”, confidano gli europarlamentari del M5s. E dunque pare inverosimile che entro il 16 dicembre, data dell’ultima plenaria prima di quella di metà gennaio che eleggerà il nuovo presidente del Parlamento di Bruxelles, ci sarà il grande annuncio.  

E così al Tempio di Adriano, quando arriva la notizia della ritirata di Conte (applauso della platea accorsa alla presentazione del libro di Marco Bentivogli, ex Cisl, pure lui tra i papabili: “Sarebbe il migliore”, dice il renziano Luciano Nobili), Calenda ha buon gioco a rinfacciare “la subalternità del Pd al M5s” a una Debora Serracchiani a cui tocca il compito più ingrato, quello di difendere una linea di partito nel giorno in cui una linea non c’è, visto che Letta, a Parigi per un convegno europeo dell’Istituto Jacques Delors, non manda segnali, non risponde al telefono. Ma durerà poco, perché ora a Roma il Pd dovrà trovare un nuovo candidato. 
 

Di più su questi argomenti:
  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.