L'editoriale
Che spettacolo questa campagna per il Quirinale
"Non è l'assenza di ogni compromesso, ma è il compromesso stesso la vera morale dell'attività politica"
Per la prima volta una competizione alla luce del sole, con candidati che sentono il bisogno di essere trasversali, con le forze politiche costrette a dialogare. Così, in una repubblica parlamentare, si governano le divisioni
Ci sono almeno due aspetti eccezionali che riguardano la campagna elettorale in corso per la prossima presidenza della Repubblica. Il primo aspetto, semplicemente spettacolare, è che, per la prima volta nella storia della Repubblica, esiste una campagna elettorale vera e propria, alla luce del sole, se così si può dire, che riguarda una competizione quirinalizia le cui meccaniche sono tradizionalmente opache, segrete, inafferrabili.
Questa volta invece no. Questa volta i candidati si presentano sulla scena pubblica in modo persino esplicito. Silvio Berlusconi è candidato al Quirinale, non ha molte possibilità, ma la sua candidatura è lì, è ufficiale, è quasi formale, e la coalizione del centrodestra al momento è tutta schierata con lui (Salvini e Meloni al momento non sanno come dirgli che il loro candidato non è quello che pensa lui). Lo stesso vale per Mario Draghi, che della sua candidatura al Quirinale ha parlato in modo implicito, limitandosi a non smentire la possibilità che a febbraio possa fare il salto da Palazzo Chigi al Colle.
E lo stesso vale anche per Sergio Mattarella, che pur avendo più volte smentito la sua intenzione di offrire un bis non può fare a meno di registrare in modo periodico la volontà da parte di alcuni partiti (in primis il Pd) di lavorare affinché vi sia una maggioranza ampia che possa rendere possibile ciò che oggi non sembra possibile (senza il sì della Lega, o di Fratelli d’Italia, il bis di Mattarella non esiste).
E’ una campagna spettacolare quella per il Quirinale – una campagna all’interno della quale non c’è candidato papabile che non si senta pronto per l’avventura: con questo Parlamento tutto è possibile – non solo per come si presenta dal punto di vista della forma (viva le candidature trasparenti) ma anche per come si presenta per quanto riguarda la sostanza. E la sostanza, se vogliamo, offre un elemento di riflessione ancora più entusiasmante che riguarda uno dei punti di forza della nostra democrazia parlamentare che è anche uno dei punti di forza degli ingranaggi che governano l’elezione del presidente della Repubblica: la necessità da parte dei candidati di essere trasversali (Berlusconi è a un passo dal dire che il M5s ha gli stessi valori fondanti di Forza Italia) e la volontà da parte dei leader politici di non escludere nessun partito dalla trattativa sul Quirinale (Enrico Letta, la scorsa settimana, ha detto con saggezza che la discussione sul Quirinale deve coinvolgere tutti, non solo i partiti che si trovano al governo, che sono già parecchi, ma anche quelli che si trovano all’opposizione, e il Pd nel giro di nemmeno due mesi è passato dal considerare Giorgia Meloni “fuori dall’arco repubblicano” al vederla ora come un interlocutore affidabile per decidere il futuro del Colle).
E così succede che la campagna quirinalizia, sia per i grandi candidati sia per i grandi elettori, diventi una campagna molto speciale non solo per i nomi in campo (una competizione tra l’attuale presidente della Repubblica e l’attuale capo del governo: che spettacolo) ma anche per la volontà da parte di tutti gli attori di utilizzare uno schema di gioco che sarebbe un sogno poter osservare anche durante altre campagne elettorali: combattere insieme gli estremismi, scommettere tutti sul trasversalismo, cercare un compromesso, provare a spostare il baricentro di tutti i partiti verso il centro della politica.
E’ una campagna quirinalizia spettacolare per queste ragioni ma lo è anche per una questione ulteriore che permette di fotografare bene una prerogativa spesso sottovalutata delle democrazie parlamentari. E la questione è questa e potremmo affrontarla con una domanda: e se alla fine dei giochi la pandemia avesse dimostrato che nei momenti di difficoltà le democrazie parlamentari funzionano meglio di quelle presidenziali?
Detto in altri termini: e se la pandemia avesse dimostrato che le democrazie all’interno delle quali le forze politiche sono costrette a dialogare sono quelle capaci di prendere in modo meno traumatico decisioni potenzialmente molto divisive? Nella stagione pre pandemica, le repubbliche parlamentari hanno spesso dimostrato di avere al proprio interno un numero sorprendente di anticorpi per difendersi dalle pulsioni anti sistema (il Parlamento italiano, da questo punto di vista, è un modello per tutto il mondo) ma nella precaria stagione pandemica le repubbliche parlamentari hanno offerto a loro modo un’altra prova di forza, trasformando il dialogo tra forze politiche molto distanti l’una dall’altra non in un rallentamento dell’azione democratica ma in un suo punto di forza. E se si sceglie di mettere a confronto le divisioni interne, le proteste, gli estremismi, i complottismi che esistono in paesi retti da repubbliche presidenziali e quelli che esistono in repubbliche parlamentari si avrà la netta impressione che le repubbliche più efficienti, quelle con più anticorpi per combattere le bolle della democrazia, non sono quelle che hanno gli strumenti per andare più veloci ma sono quelle che hanno gli strumenti per governare al meglio le divisioni che esistono in un paese. Perché, come sostenuto anni fa da Joseph Ratzinger, non è l’assenza di ogni compromesso, ma è il compromesso stesso la vera morale dell’attività politica.
E chissà che ancora una volta il Parlamento italiano, giocando con i compromessi, non sappia regalarci qualche soddisfazione, quando si ritroverà a decidere a chi affidare il destino dell’Italia nei prossimi sette anni.