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Il dilemma Amazon: limita davvero la concorrenza?
Le pratiche di Amazon, come pure di Apple e Google, anche senza colpire direttamente i consumatori possono mettere a rischio la stessa innovazione di cui sono stati il frutto
L’Italia tutto d’un tratto si è trovata al fronte della lotta tra regolatori antitrust e le grandi piattaforme digitali americane. La multa da 1 miliardo e 128 milioni di euro decisa dall’Autorità per la concorrenza italiana è la più onerosa mai pagata da Amazon in Europa, sempre che non venga annullata durante il ricorso già annunciato dalla società americana. Questa volta l’occhio del garante si è concentrato sui servizi di logistica del colosso delle vendite online, e in particolare su tutti quei servizi – magazzino, spedizione, resi – offerti ai venditori per recapitare i pacchi ai clienti. Secondo l’autorità guidata dal presidente Roberto Rustichelli Amazon starebbe discriminando i venditori che non aderiscono ai suoi canali di logistica (il servizio Fulfillment by Amazon, nelle 250 pagine del provvedimento “FBA”) e scelgono di gestire autonomamente l’invio dei prodotti. Per chi aderisce ai servizi targati Amazon esiste infatti una serie di privilegi. Prima di tutto, poter ricevere l’etichetta Prime che consente spedizioni più rapide e a costo zero per i clienti abbonati, i più interessanti per le aziende: valgono il 70 per cento degli acquisti e spendono in media quattro volte tanto gli utenti non Prime. Negli ultimi mesi Amazon ha introdotto la possibilità anche ai venditori non FBA di accedere al programma, ma l’Agcm non ritiene sufficiente la mossa perché l’ingerenza della società nei contratti firmati con i corrieri rimane elevata. E poi la possibilità di partecipare alle grandi svendite, prese d’assalto dai consumatori, come il Prime Day e il recente Black Friday. E ancora, essere selezionati con maggiore probabilità per la Buy Box, cosicché il proprio prodotto appaia come predefinito per l’acquisto e decisamente più visibile rispetto alla lunga lista di offerte della concorrenza raggiungibile attraverso link minuscoli che scoraggiano anche gli acquirenti più attenti. Non stupisce che di fronte a queste condizioni aderiscano alla logistica di Amazon circa 3 retailer su 5. Su questi privilegi sta indagando anche la Commissione Europea.
Ovviamente non si tratta di un servizio gratuito, anzi i costi sono aumentati notevolmente negli ultimi anni: la tariffa di stoccaggio in magazzino è passata da 20 a 36 euro nei mesi autunnali, mentre quella di spedizione è cresciuta del 16 per cento nel 2018 e del 7 nel 2019. Un bel business per la società, che dai servizi di intermediazione con i venditori – in buona parte frutto di FBA – raccoglie quasi la metà del suo fatturato in Italia.
Risultato? Più della metà dei 300 milioni di pacchi spediti ogni anno in Italia è gestita da Amazon, direttamente o attraverso accordi con i corrieri. Tale stato dei fatti – che ha portato l’autorità per la concorrenza alla multa per abuso di posizione dominante – è giustificato dalla società di Bezos e dai suoi difensori con l’argomentazione che la compagnia offre un servizio migliore rispetto ai concorrenti. Si sostiene che la maggior parte dei venditori si affida ai suoi servizi perché sono i più efficienti, e dunque l’Agcm non dovrebbe avere nulla in contrario. C’è una parte di verità in questa giustificazione: Amazon si è conquistata la leadership del commercio online a suon di bassi prezzi e apprezzamento dei clienti. Non ha torto chi in questi giorni ha ricordato lo stato comatoso dei servizi di spedizione fino a qualche anno fa.
Ma ciò non è sufficiente a togliere il problema dal tavolo: queste argomentazioni infatti non dimostrano in alcun modo che la predominanza di Amazon è rimasta esogena alla struttura del mercato. E’ invece probabile il contrario: secondo un sondaggio compiuto nel corso delle indagini, 4 retailer su 10 fra coloro che utilizzano la logistica di Amazon giudicano dirimente la visibilità aggiuntiva per i propri prodotti garantita dal servizio FBA e non lo rinnoverebbero se non fosse più disponibile. In altre parole: il 40 per cento di loro non sarebbe disposto a pagare Amazon per la qualità della sua logistica, se non offrisse anche i privilegi resi possibili grazie alla sua pervasività sul commercio online. In questo modo la società fondata da Bezos, sfruttando il fatto che è allo stesso tempo un mercato aperto a tutti e un venditore in prima persona, può decidere di mettere in bella mostra i prodotti di chi paga i suoi servizi. Danneggiando direttamente non tanto i consumatori, quanto le altre aziende di logistica (Bartolini, TNT, e via dicendo) di cui è allo stesso tempo competitor e principale cliente (altra condizione che con la concorrenza non va granché d’accordo), e le altre piattaforme di commercio online come eBay.
L’ondata di procedimenti e multe contro i colossi del web – in atto ovunque, dagli Stati Uniti all’Europa passando per la Cina – appare giustificata dalla condizione di potere di Google, Apple e Amazon. Ovviamente non sempre: una parte dell’establishment politico, accademico e mediatico agisce perché teme di perdere – o ha già perso – parte della propria influenza a favore di Big Tech. Nonostante ciò, l’azione antitrust rimane giustificata dal fatto che tutte e tre le società, benché operino in tre mercati distinti, hanno in comune lo stesso peccato originale: vendere i propri prodotti e/o servizi all’interno di un mercato gestito da loro stesse. Ecco perché il potere di decidere le regole del mercato, attraverso gli algoritmi e le tariffe, è sanzionabile dall’Antitrust. Nonostante, a oggi, non siano riscontrabili evidenti contraccolpi per i consumatori, la più recente letteratura scientifica ha evidenziato che le piattaforme digitali possono limitare la concorrenza anche senza aumentare i prezzi finali. Per esempio – come ha sottolineato Lina Khan, oggi presidente della Federal Trade Commission (l’Agcm americano) – sfruttando la propria posizione di intermediario, grazie alla quale possono mettere fuori mercato i competitor in altri livelli della filiera.
Le pratiche di Amazon, come pure di Apple e Google, anche senza colpire direttamente i consumatori possono mettere a rischio la stessa innovazione di cui sono stati il frutto. Attraverso le innumerevoli acquisizioni di startup e le pratiche che sfruttano i benefici di rete e limitano la concorrenza, a essere uccisi in culla potrebbero essere proprio i nuovi Amazon, Apple e Google degli anni Venti. Se oggi dovessimo ancora telefonare con un Nokia o fare ricerche online su Yahoo o tramite Netscape, staremmo meglio o peggio?