il retroscena
Conte nel recinto rossogiallo, mentre Di Maio apre ai centristi: "Serve un campo largo per davvero"
Il ministro degli esteri lavora per un ponte verso Renzi e Calenda. "Da soli, Pd e M5s non bastano". Spadafora e Battelli: "inutile porre i veti ad Azione e Iv". I complimenti dei renziani e dell'Udc a Di Maio: "Giuseppe è solo un traghettatore, è Luigi ad avere visione politica". Gli incontri con Guerini. Le trame per il Quirinale e non solo
Forse è il solito gioco del confutare sempre ciò che l’altro dice. O forse c’è che l’altro, Giuseppe Conte, come dice il senatore Antonio Saccone, “è un mero traghettatore, mentre Luigi Di Maio ha un’intelligenza politica straordinaria”. Sta di fatto che due giorni fa, mentre l’ex premier esaltava il recinto rossogiallo, il ministro degli Esteri, conversando con Roberto Gualtieri, osservava – secondo quanto il sindaco di Roma ha riferito ai collaboratori – come invece “sia necessario lavorare a un campo largo per davvero”, dialogando anche con Renzi e Calenda.
Che poi è la linea che i pretoriani di Di Maio ribadiscono ai propri colleghi in Transatlantico. “Alla fine con Azione e Iv bisognerà trovare una sintesi, quando si arriverà al dunque, e quindi è inutile passare le giornate a insultarci a vicenda”, dice a un manipolo di deputati il grillino Sergio Battelli, presidente della commissione Affari europei. Lo dice a un gruppo di compagni che del resto sa quanto il proprio capogruppo, Davide Crippa, abbia faticato per evitare, già un mese fa, la pubblicazione delle famose tredici domande a Renzi. “Davide glielo aveva detto che era un autogol”, spiegano i deputati. “Sia perché così, tu che sei il capo della prima forza in Parlamento, ti metti a rincorrere il leader di un partito del 2 per cento. E sia perché poi, quando quello ti sfida in tv, tu scappi”.
E allora si capisce anche perché Ettore Rosato, uomo di fiducia del senatore di Scandicci, non perda occasione per ricordare ai colleghi del M5s che “bisogna affrettarsi a riportare Di Maio in auge, perché così è il caos”. Ragionamenti che il vicepresidente della Camera renziano ha ribadito, col tono di chi scherzando fa sul serio, al ministro degli Esteri tre giorni fa, durante la presentazione del libro di Vincenzo Spadafora. Altro dimaiano in purezza che, quando sente evocare anatemi su Renzi e Calenda, se la ride: “E’ ben bizzarro che, dopo aver fatto accordi e governi con tutto l’arco parlamentare, ora ci impuntiamo nel ritenere incompatibili con noi due partiti minori”. E così, appoggiandosi su un divanetto fuori dall’Aula di Montecitorio, il renzianissimo Luciano Nobili lancia la provocazione: “Alla fine il grande centro lo faremo proprio con Di Maio”.
La cui convinzione poggia in fondo proprio sulla consapevolezza che l’alleanza rossogialla, da sola, non basta a garantire al fronte progressista di vincere. E che dunque un ponte verso il centro bisogna gettarlo, anche per far sì che da lì possano passare eventuali forzisti in fuga dalla destra a trazione sovranista, o patriottica. E allora ecco Emilio Carelli, entrato nel M5s su richiesta di Di Maio, poi passato con Coraggio Italia e ospitato di recente sul palco della Leopolda, osservare che “sì, una convergenza al centro la si dovrà trovare a gennaio, perché questa frammentazione nel campo liberale e riformista non ha senso, e se dal Pd e dal M5s continuano ad arrivare veti è difficile instaurare un rapporto solido con quel campo”.
Il che vale, ovviamente, anche in ottica quirinalizia. “Enrico Letta ha ragione a cercare un’intesa ampia, a sparigliare puntando anche sul nome di Draghi, anche perché i numeri dell’Aula ci dicono che soluzioni connotate come di centrosinistra hanno purtroppo ben poche speranze di farcela”, ragiona la senatrice dem Valeria Fedeli. Solo che se ha ragione Letta, per la contradizion che nol consente non può avercela Conte quando auspica una candidatura congiunta tra Pd e M5s. “E qui sta l’intelligenza di Di Maio, infatti”, sorride Saccone, senatore dell’Udc che pure fu a lungo corteggiato dall’Avvocato del popolo ai tempi della caccia ai responsabili, e che però all’ex premier riconosce ora al massimo il ruolo di “amministratore temporaneo” del M5s, uno che infatti scopre solo a cose fatte che i tre membri della Giunta per le elezioni al Senato hanno rinunciato a votare contro la relazione che dà ragione a Renzi sul caso Open, non sapendo che quell’astensione è stata frutto di una negoziazione col Pd durata ore. “Conte ha inspiegabilmente scelto una logica identitaria che lo isola”, insiste Saccone, “e invece Di Maio, da vero leader, è passato dall’invocare l’impeachment di Mattarella e la rivoluzione dei gilet gialli al proporsi come il più fervido garante dello status quo, e dunque parla con tutti”. Parla assai spesso anche con Lorenzo Guerini. E non solo di questioni diplomatiche e militari. E’ tutto un fiorire di aneddoti e pettegolezzi su quanta sintonia ci sia tra quell’area riformista del Pd e il capo della Farnesina. “Quando quei due si parlano – sussurra un deputato dem – a gennaio di solito succedono cose interessanti”.