il retroscena
Sulle delocalizzazioni Palazzo Chigi (con Franco e Giorgetti) imbriglia Pd e M5s
Doveva essere una rivoluzione, invece la montagna ha partorito il topolino: ecco l'emendamento alla legge di Bilancio. Stralciata la parte su sanzioni e multe, la norma per limitare la fuga delle imprese si fonda sugli incentivi. Le tensioni al Mise, la viceministra Todde stoppata dai tecnici del suo dicastero. La riunione decisiva a Via XX Settembre. Tradite le promesse della propaganda: e ora i sindacati già protestano
La mediazione politica è stata raggiunta giovedì sera, a Via XX Settembre. Ma più che altro s’è trattato di scendere a patti con la realtà. Perché in fondo tutti sapevano che i tonitruanti annunci di sanzioni contro le imprese pronte a delocalizzare erano velleitari. E quindi quella che Daniele Franco ha mostrato a Giancarlo Giorgetti e ai tecnici del ministero del Lavoro presenti altro non era che la versione della norma riscritta a Palazzo Chigi. E quando Giuseppe Conte, facendo buon viso a cattivo gioco, ieri ha esultato, l’ha fatto sapendo che il risultato era ben poca cosa rispetto alle promesse.
La misura della delusione delle aspettative alimentate per mesi dal M5s e da un pezzo del Pd sta del resto nelle parole di Francesca Re David, segretaria della Fiom, che a metà pomeriggio, poche ore dopo il post di giubilo del fu avvocato del popolo (“Non possiamo che esprimere soddisfazione per l’intesa”), incenerisce un provvedimento che, sentenzia, “rischia di dare il via libera alle imprese che hanno deciso di delocalizzare”. E certo anche questa è una sintesi di parte, forse ingenerosa, ma che spiega quanto sia stato fumoso il dibattito alimentato sul tema dall’asse rossogiallo.
Del resto, si era partiti prospettando sanzioni e prelievi forzosi (il 2 per cento sul fatturato dell’ultimo esercizio) ai danni delle imprese che prendevano la via della fuga dall’Italia. Questo era lo schema abbozzato dal titolare del Lavoro Orlando. Che poi parlò anche di una “black list” dove inserire le aziende che, dopo essere venute meno agli impegni presi con governo e sindacati, venivano escluse dalla possibilità di accedere a fondi pubblici. Seguirono proteste roboanti di Confindustria e uno scambio di non amorevoli vedute tra Carlo Bonomi e il capo delegazione dem al governo. Il quale, però, contava sull’asse col dicastero dirimpetto al suo. O almeno con un pezzo di quel Mise in cui in effetti Giorgetti non ha mai troppo gradito l’attivismo della sua vice grillina, Alessandra Todde. Che, ancora nei giorni passati, è entrata in contrasto con gli uffici legislativi non solo del ministero dello Sviluppo, ma anche con quelli dell’Economia, che d’altronde le rinnovavano gli inviti alla cautela che erano gli stessi condivisi anche dai tecnici di Palazzo Chigi.
Dove, in effetti, l’aspetto sanzionatorio che la vicepresidente del M5s voleva dare alla norma, non è mai parso convincente. E non per la paura di spaventare le imprese, che pure c’era. Ma per l’impossibilità di invertire per via normativa dei processi industriali che spesso si sviluppano ben al di sopra delle teste dei singoli ministri e dei governi nazionali. E d’altro canto il modello a cui la stessa Todde diceva di far riferimento, quello cioè di una legge francese varata all’epoca di Hollande nel 2014, aveva in sé un grosso vizio di forma, dacché le parti più severe di quella loi Florange, quelle che introducevano le costrizioni industriali più incisive, vennero cassate dai giudici costituzionali di Parigi. Inoltre, difficilmente si sarebbe potuta applicare ai casi più complessi, e più odiosi, di delocalizzazioni: quelli operati da fondi d’investimento o multinazionali, come nel caso di Gkn o Whirlpool.
E così, quando ieri sera Orlando e Giorgetti sono andati in Senato a spiegare ai rappresentanti della commissione Bilancio il contenuto del provvedimento elaborato alla vigilia, la portata dell’intervento è parsa subito ben più modesto. Già nel metodo, peraltro. Visto che, anziché impantanarsi nella costruzione di un decreto ad hoc, si è optato per un più limitato emendamento alla legge di Bilancio. “Si usa così il primo slot utile”, ha osservato giustamente il ministro del Lavoro. Sapendo però di offrire un nuovo pretesto di polemica ai sindacati: perché la Finanziaria sarà di fatto blindata, e dunque l’incontro del governo con Cgil, Cisl e Uil, fissato lunedì prossimo, rischia di essere poco più di un punto informativo. Ma è soprattutto il contenuto dell’emendamento, a dare il senso del ravvedimento.
Perché più che altro la norma punta ora sugli incentivi a restare, e non sulla sanzioni per chi va via. Quelle, stando alle spiegazioni fornite da Giorgetti, scatteranno solo nel caso in cui le imprese non accetteranno di rispettare un patto di mitigazione degli effetti della chiusura (di durata variabile tra i tre e i dodici mesi), contribuendo cioè a finanziare ammortizzatori sociali e sussidi per i lavoratori tagliati fuori. Per lo più, però si punterà sugli incentivi per le imprese che decidono di investire nelle aree di crisi. Ci saranno poi un fondo speciale di 100 milioni per favorire il prepensionamento dei lavoratori di aziende in crisi, 450 euro per i contratti di lavoro e ulteriori risorse per la decontribuzione totale per chi assume a tempo indeterminato lavoratori in crisi. Che non è poco, e in fondo non è neppure male. Ma è tutt’altra cosa rispetto a quanto promesso per mesi da Orlando e Todde. Il che è anche un bene, se non fosse che ancora una volta Pd e M5s rischiano ora di dover fronteggiare gli effetti nefasti di una propaganda sfuggita di mano.