Dopo la politica, una dose di Draghi anche per la classe dirigente
In dieci mesi di governo il premier ha contribuito a una rigenerazione dei partiti. Un effetto Draghi ora è auspicabile su quella borghesia che in questi anni ha giocato con la cultura anti casta e ha cavalcato le guerre a favore dell’antipolitica
Doveva essere, almeno così si diceva, il tecnico destinato a svuotare la politica, il burocrate condannato a distruggere i partiti, il competente incaricato di commissariare il Parlamento. E invece, dopo dieci mesi di governo, Mario Draghi è riuscito a mettere in campo un Recovery parallelo a quello economico, inquadrabile anch’esso con un acronimo di quattro lettere: Pnrp. Ovverosia: Piano nazionale resilienza partiti. Sarà per la velocità impressa alla politica dalla stagione pandemica, che ha avuto l’effetto di far piombare il mondo intero dentro un drammatico acceleratore del futuro, sarà per la congiuntura astrale favorevole per il nostro paese (vedi l’Economist), sarà per tutto questo e sarà per molto altro ma alla fine dei conti si può dire che il presidente del Consiglio, con la sua azione di governo, con la sua capacità di smussare gli estremismi dei partiti e con la sua abilità a deideologizzare anche la più ideologica delle scelte politiche, è riuscito a fare con i partiti che fanno parte di questo Parlamento un’operazione simile a quella che periodicamente fanno le banche centrali con gli istituti di credito: ovviamente lo stress test.
Lo stress test è un monitoraggio portato avanti dalle autorità di vigilanza bancaria per determinare se le banche hanno capitale sufficiente per affrontare eventuali condizioni avverse e in un certo senso Draghi con i partiti è riuscito a mettere in campo un’operazione simile: determinare, con uno stress test quotidiano, se i partiti hanno forza sufficiente per affrontare eventuali condizioni avverse. E così, da dieci mesi, non c’è partito che faccia parte del Parlamento che non si sia ritrovato a fare i conti con una sorta di congresso permanente.
Draghi ha cambiato il Movimento 5 stelle, lo ha costretto a fare un passo avanti nel suo processo di europeizzazione (finirà nel Pse?), lo ha costretto ad accelerare la sua trasformazione in partito (quanto durerà Conte?), lo ha costretto a mettere in campo diverse abiure rispetto a posizioni del passato (ricordate Di Maio su Uggetti?), lo ha costretto a fare alcune scelte in controtendenza rispetto ai propri estremismi (ve la ricordate la prescrizione?) e ha contribuito a creare una competizione di fatto tra chi prova a tenere insieme l’anima nostalgica e l’anima nuova del M5s (Conte) e chi cerca di proiettare il movimento verso una stagione dichiaratamente alternativa a quella precedente (Di Maio). Lo stesso è successo con la Lega, in misura persino maggiore, e pur essendo uno dei pochi partiti a non aver cambiato i vertici in questi mesi (Pd e M5s hanno leader diversi rispetto a dieci mesi fa) la Lega ha messo in campo un congresso quotidiano che quotidianamente si è concluso con una marginalizzazione della vecchia linea di Matteo Salvini: l’Europa oggi sembra essere meno lontana di un tempo (Giorgetti vorrebbe la Lega nel Ppe, non succederà, ma la Lega che non vuole avere più nulla a che fare con l’AfD oggi è maggioranza), le critiche all’euro sembrano essere solo un vecchio ricordo (ve li ricordate Borghi e Bagnai?), gli istinti no vax della Lega sono stati addomesticati grazie alla realpolitik imposta da quella parte di partito interessata più al governo (Fedriga e Giorgetti) che alla lotta (i no euro).
Lo stesso, se vogliamo, è successo anche al Pd, che nella stagione di Draghi non si è limitato solo a cambiare segretario, da Nicola Zingaretti a Enrico Letta, ma in questa stagione, per forza di cose, ha ricominciato a trovare coraggio, diventando l’interprete migliore dell’agenda Draghi (più per demeriti degli altri che per meriti propri), costruendo un rapporto diverso con il M5s (meno sottomissione), proponendosi come punto di riferimento fortissimo non del contismo (altri tempi) ma di tutte le forze antieuropeiste (il campo largo non si sa bene cosa sia, è vero, ma alternative antipopuliste al campo largo al momento non si vedono) e proponendosi infine in modo più o meno volontario come il vero partito garante di quella formidabile creatura politica chiamata Pnrr (non poco).
Lo stesso, infine, se vogliamo, è successo anche all’interno di Fratelli d’Italia, dove l’effetto Draghi non è arrivato al punto da determinare una nuova leadership politica ma ha spinto Giorgia Meloni a cambiare qualcosa della sua leadership, rendendola meno autoreferenziale, più aperta al dialogo, più trasversale e più desiderosa di competere con Salvini su un terreno di gioco diverso dalla semplice contesa dell’antieuropeismo a carattere xenofobo. Ha cambiato la politica, Draghi, dando un contributo alla sua rigenerazione, e non al suo commissariamento, ma in una certa misura ha cambiato qualcosa anche nel mondo della borghesia. L’establishment italiano, oggi, con un certo booster di paraculismo, si specchia di fronte a Draghi con l’aria di chi dice: eccolo qui, c’est moi. Eppure, come abbiamo già avuto modo di scrivere, la verità è molto diversa, e l’ascesa di Draghi ha rappresentato uno schiaffo micidiale a tutta quella borghesia che nel corso della storia recente dell’Italia, giocando con la cultura anti casta, cavalcando le guerre a favore dell’antipolitica, demonizzando l’uomo solo al comando, ha fatto di tutto per promuovere un modello opposto a quello rappresentato da Draghi. A poco a poco, un reset in politica è iniziato. Chissà quando l’effetto Draghi produrrà qualcosa di simmetrico anche nella malandata classe dirigente del nostro paese. Buon booster a tutti.