Tra manovra e balneari, il "metodo Draghi" finisce nella palude dei partiti
Le zuffe sulla Finanziaria, il Senato che diventa un suk. Il premier è tentato di accelerare sulle concessioni delle spiagge, ma Pd e Lega recalcitrano. Orlando condanna il Superbonus, ma il suo partito lo ha difeso. E Renzi pensa a spargigliare proponendo un patto di riforme istituzionali. E manca ancora un mese alla sfida del Quirinale
Lo ha ammesso come a voler disinnescare le critiche prima che divampino. “C’è stato affanno sulla manovra”, dice Mario Draghi. Sa che il suo “metodo”, il decisionismo autorevole e forse perfino un poco autoritario, comme il faut, potrebbe essere la sua forza e la sua condanna al tempo stesso. E per questo fino all’ultimo il premier mediterà se strappare, se portare nel Cdm di oggi il disegno di legge sui balneari. La volontà ci sarebbe, in effetti. C’è la voglia, cioè, di sanare un’anomalia tutta italiana, sanzionata di fatto anche dal Consiglio di stato a novembre scorso, e su cui da anni la Commissione europea ci tiene sotto procedura d’infrazione. E siccome entro febbraio è previsto l’invio, da parte di Bruxelles, del parere motivato sul rinnovo delle sanzioni, Draghi vorrebbe agire subito, avviando di fatto la procedura per la messa a bando delle concessioni balneari. Lo farebbe, peraltro, anche per sgomberare il campo da un sospetto che forse è poco più di un equivoco, e cioè che, come ha spiegato Enrico Letta ai suoi confidenti, “è proprio dalla legge sulla Concorrenza che s’è capito che Draghi, uno che su quel tema avrebbe potuto fare un capolavoro, ha iniziato a preoccuparsi alla stabilità della sua maggioranza”. Insomma, è da lì che ha iniziato a pensare al Quirinale, ed è lì che il suo “metodo” s’è appannato. E però il paradosso è che anche gli emissari del Pd, di quel Pd che lo accusa di essersi troppo accomodato, in queste ore recalcitrano. Da Palazzo Chigi telefonano per sondare il terreno (“Che ne dite se domani portiamo il disegno di legge in Cdm?”), esprimono remore e cautele, invitano a prendere tempo. “C’è un confronto con le rappresentanze del settore ancora in corso, sarebbe un errore legiferare ora”, dice il deputato dem Umberto Buratti. Portavoce di un fronte assai trasversale, che vede anche la Lega assai scettica, col suo ministro del Turismo Massimo Garavaglia contrario all’accelerazione; e pure Forza Italia, pure il vicepresidente grillino Mario Turco, mugugnano.
E qui sta insomma il paradosso di Draghi. Sentirsi rimproverato, a giorni alterni, di eccessivo decisionismo, quel decisionismo che umilia il Parlamento, e una sorta di lassezza, di eccessiva accondiscendenza ai capricci dei partiti nella supposta ricerca di un’assicurazione per il Colle. Ed ecco allora il pasticcio della legge di Bilancio. Su cui il premier, in almeno un paio di passaggi, avrebbe forse agito più d’imperio. Di certo, come ha spiegato ieri in conferenza stampa, non avrebbe tollerato l’indulgenza su certe distorsioni prodotte dal sussidio. E però anche qui, si è dovuto confrontare con dei partiti bizzosi e certe volte perfino bipolari. Come il Pd, ad esempio, con Andrea Orlando, sfogarsi alla buvette della Camera contro “l’eccesso di critiche riservate al Reddito di cittadinanza, frutto di un classismo diffuso che invece non dice una parola su sprechi e abusi legati al Superbonus”, come non fosse il capo delegazione di un partito che ha assecondato in tutto e per tutto la battaglia guidata dal M5s, ma in verità trasversale, sull’estensione massima della misura. Un Movimento che del resto, in quanto a contraddizioni, non è stato da meno. E così, dopo aver ottenuto il relatore alla legge di Bilancio, e avendo nella sua Laura Castelli la viceministra che ha seguito al Senato l’iter della Finanziaria, è arrivato a minacciare il sabotaggio della manovra all’alba di martedì, al termine di incontri bilaterali durati tutta la notte, con la capogruppo Maria Castellone più ansiosa di legittimare la sua nuova leadership con la pattuglia scalmanata dei grillini, che non di trovare un’intesa. “Evidentemente Draghi si assumerà la responsabilità di aver portato il paese in esercizio provvisorio”, hanno gridato nel M5s quando si sono visti piovere un emendamento, noto nei dettagli solo al Mef, sulle delocalizzazioni.
E poi c’era perfino chi, come Gaetano Quagliariello, per farsi approvare il suo emendamento da 10 milioni per il suo collegio elettorale dell’Aquila, di fronte alle perplessità del Mef, si rivolgeva direttamente a Palazzo Chigi. Caos e frastuono, insomma. E così, come ogni anno, per chiudere la manovra in tempo per la fine dell’anno, si è dovuto acconsentire che si aprisse il consueto suk. E ancora, in vista della definizione del maximendamento che dovrebbe essere votato dall’Aula del Senato alla vigilia di Natale, per arrivare alla Camera non prima del 28 dicembre, c’è da discutere e da lavorare.
Matteo Renzi lo farà notare, nel suo discorso di oggi a Palazzo Madama. Dirà che non era per vedere riproporre le pratiche adottate da Conte, che si è fatta la battaglia per portare Draghi al governo. E dirà pure, però, che se anche Draghi è finito impantanato nella stessa palude di Conte, vuol dire che è il sistema che non funziona, che una riforma, un ripensamento dell’assetto istituzionale servirebbe eccome. E che forse proprio a quello, andrebbero consacrati i prossimi anni, la prossima presidenza della Repubblica. Solo che ipotizzare che questa entropia insensata, questo contorcimento ormai continuo di una maggioranza anomala incerta sul proprio avvenire, possa trovare un nuovo equilibrio senza Draghi e senza il suo “metodo” a guidarne l’azione, sembra abbastanza azzardato.