Mario Draghi e Sergio Mattarella (Ansa)  

La corsa al colle

Cari partiti, se non volete Draghi al Quirinale va bene. Ma almeno non fateci ridere

Giuliano Ferrara

È legittimo che le forze parlamentari preferiscano un altro nome come capo della stato, per interessi di parte o per auto conservazione. Ma che trovino un’altra scusa che non sia la difesa della democrazia dall’uomo solo al comando e dal rischio autoritario. Siano seri o sarà una buffonata

Si fa presto a dire e ridire e celebrare e osannare e idoleggiare i partiti. Gente che non alzò un dito quando si trattava di difenderne nella bufera giustizialista la funzione costituzionale, l’impatto reale e storico nella vita italiana, la dignità e il valore come strumenti decisivi della democrazia delegata, ora invoca contro la prospettiva di Draghi al Quirinale la sovranità dei partiti. Quando Draghi, senza candidarsi, ché non usa, ha semplicemente evitato di dichiararsi estraneo alla scelta politica imminente, rinviando la libera decisione alla sovranità del Parlamento nell’elezione di un nuovo capo dello stato, una serie di piccoli mestatori dell’opinione e i soliti mentori dei propri piccoli interessi si è messa a schiamazzare: ma allora qui si vuole andare verso un “presidenzialismo di fatto”, allora riaffiora lo spettro dell’uomo solo al comando, allora sono in gioco i partiti come pilastri della democrazia parlamentare!

 

Che buffonata. Non sono in gioco i partiti, è il solito gioco dei partiti che avanza. Che affiora nella bocca di chi persegue sistematicamente la mediocrità o la medietà delle scelte per evitare, come quasi sempre è accaduto, di tirare le fila di un progetto e consolidare una prospettiva di consolidamento e trasformazione del potere politico nell’interesse nazionale. E questo chiacchiericcio molesto scatta sempre quando si delinea qualcosa di responsabile, quando la Repubblica minaccia di rivelarsi non una cosetta a disposizione delle combriccole di costituzionalisti e politicanti ma una cosa seria secondo la sua storia e la sua Costituzione.

 

Si può pensare quello che si voglia di Draghi, ma farne un nemico del sistema dei partiti, un avventuriero solitario alle prese con una resistibile ascesa personale, questo è ridicolo. Il capo dello stato, esercitando i poteri di un presidenzialismo di fatto negato solo dagli azzeccagarbugli, di fronte al cedere della maggioranza e alla necessità di una soluzione all’altezza della montagna di quattrini stanziata dall’Europa in regime di mutualizzazione del debito per riequilibrare l’Italia, terzo paese dell’Unione, ha chiesto e ottenuto di dare a Draghi una maggioranza efficace, super partes, per decidere e fare in mezzo all’emergenza. Il curriculum era quello giusto, l’appello trovò una risposta. Con Monti era stata tutta un’altra storia, il governo fu confezionato in un istante, e il suo capo si mise a fare da maestro lezioni di economia alla lavagna, con un fare tecnico e con una insuperbita volontà decisionale che risultarono una benedizione per il paese travolto dalla crisi finanziaria e una condanna senza appello per i partiti impotenti.

 

Draghi, invece di presentarsi a capo di una giunta tecnocratica, ha impiegato settimane per cucire la maggioranza, ha consultato anche il Wwf e l’Arci, è sgusciato non da gesuita ma da politico raffinato nel letto sfatto dei partiti incapaci di trovare altre soluzioni, ha lavorato per un anno allo scopo di tenere insieme quello che si poteva tenere insieme, tra strepiti e balzelli vari richiesti da leader imbizzarriti, e ha avuto successo. Non si è presentato come un tecnico, come un commissario della Repubblica, ha usato con larghezza e compostezza, senza mai mettere nessuno di fronte al fatto compiuto, i poteri che la missione affidatagli e la formazione della maggioranza di emergenza gli conferivano.
 

Ora è chiaro, e non c’era nemmeno bisogno che lo facesse capire il presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno, che il senso della missione, anche in base ai suoi risultati provvisori, è tale da non poter sopravvivere come niente fosse a un fatto rilevante come la scelta di un nuovo capo dello stato, di un nuovo mandatario della committenza Draghi. E questo non significa imporre ultimatum, liquidare il patrimonio della autonomia della politica, umiliare gli eletti, significa ragionare di politica in un sistema di partiti e in uno stato a democrazia parlamentare. Se non vogliono votare Draghi al Quirinale perché non tornano loro, con un tipo come lui, i conti e conticini che erano scritti sull’acqua prima di Draghi, be’, trovino un’altra scusa che non la difesa della democrazia dall’uomo solo al comando, dal gollismo rampante, dal rischio autoritario e di destrutturazione dei partiti. Siano seri e non ci facciano ridere.  

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.