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Renzi, l'asse con Salvini e un patto per le riforme. Le due vie che portano Draghi al Colle
Il senatore di Scandicci offre al leader leghista una exit strategy eccellente per tornare all'opposizione: il premier al Colle e un governo politico fino al 2023. E poi c'è l'ipotesi di un mandato ad hoc, per la revisione costituzionale, prima dell'apoteosi dell'ex capo della Bce
Citando quel Robert Frost che gli è spesso capitato di utilizzare, si direbbe che Matteo Renzi sta lì, con due strade davanti a sé nel bosco quirinalizio. Solo che la stranezza, stavolta, sta nel fatto che i sentieri portano entrambi alla stessa meta: Mario Draghi al Colle. E però una è una via apparentemente più piana, spedita, l’altra segue una traiettoria incerta, tortuosa, sicuramente più lunga. E dire fin d’ora quale sarà l’itinerario scelto dal senatore di Scandicci è cosa ardua, forse perfino inutile: perché la tattica parlamentare, come spesso l’ex premier ama ripetere, segue un po’ il precetto napoleonico dell’“on s’engage, et puis on voit”.
Che la situazione sia fluida, del resto, Renzi lo ha capito anche parlottando con Matteo Salvini, convenendo con lui che non è detto che l’apoteosi quirinalizia di Draghi debba avvenire in nome di un’abdicazione della politica. E affermando al contempo, però, che non è solo da una bocciatura del premier sulla via del Colle che passa il riscatto dei partiti commissariati dall’ex banchiere centrale. Al contrario, c’è un’ipotesi politicissima che troverebbe sostanza proprio nell’elezione di Draghi a fine gennaio, ed è su quella che Renzi si scambia dispacci col segretario della Lega. Il quale infatti da almeno due settimane ha prospettato ai suoi consiglieri uno scenario forse obbligato: quello, cioè, di ritornare all’opposizione, o quantomeno di alleggerire l’impegno del partito nei confronti di un governo che lascia troppo spazio a Giorgia Meloni come unica picconatrice. E però neppure l’ipotesi di un precipitare degli eventi verso elezioni anticipate è gradita a Salvini: che ha bisogno di ritrovare una sua agenda, un suo spazio, al di fuori del perimetro di governo. Ha bisogno di tempo. E insomma quell’apparente altolà lanciato giorni fa dal capo del Carroccio, quell’“io che resto a fare se Draghi non sta più a Palazzo Chigi?”, va forse interpretato come l’indizio di una exit strategy che all’ex ministro dell’Interno non sarebbe poi così sgradita.
E anzi, è proprio per rendere ancora più giustificabile una sua rottura del patto di maggioranza, che renziani e salviniani intravedono l’opportunità di un premier politico, e magari di segno rossogiallo. Se ad esempio dal trambusto di gennaio uscisse un esecutivo a guida Franceschini, chi biasimerebbe la fuga di Salvini?
Strategie, certo, tute da verificare. Suggestioni. Che però disegnano un quadro in cui in fondo tutti ci guadagnerebbero qualcosa: Pd e M5s otterrebbero uno spostamento più a sinistra dell’asse di governo, la Lega si vedrebbe legittimata nel cercare un nuova vena barricadera, e i peones, tutti, avrebbero la garanzia di un altro anno di legislatura.
E Renzi? Renzi confida che un simile scenario, il profilarsi insomma di una maggioranza Ursula, porti a esasperare le contraddizioni interne al mondo liberale, a partire da una Forza Italia che dovrebbe finalmente scegliere tra l’ancoraggio europeista e riformista e l’inseguimento al Capitano. E da questa resa dei conti, il progetto del nuovo centro troverebbe nuovo impulso. D’altronde Renzi sa bene che non può rischiare di ritrovarsi a giocare, proprio lui che ha propiziato questo nuovo equilibrio, il ruolo di sabotatore di Draghi. E dunque non può consentire che una eventuale elezione al Colle del premier passi per un accordo tra Enrico Letta e i sovranisti.
E forse è per questo che anche l’altra via indicata dall’ex premier porta a Draghi e alla sua promozione a capo dello stato. Solo che ci si arriverebbe dopo una transizione più lunga: un rinnovo del mandato di Sergio Mattarella, se l’infuriare del Covid lo richiedesse, o magari la spinta a un nome centrista – come Pier Ferdinando Casini o come quel Giuliano Amato per il quale Renzi forse non stravede, ma sul quale pure si acconcerebbe, se le contingenze lo imponessero – per un mandato ad hoc, per così dire, e possibilmente a tempo: e cioè un paio d’anni incentrati su un programma di riforme istituzionali e costituzionali, che magari mirassero a una forma di semipresidenzialismo, prima di consentire che poi l’uomo del Colle, il presidente della Repubblica a cui non si può dire di no, diventi davvero lui, finalmente lui: Draghi.