L'eredità del presidente
Il presidente koala. Mattarella lascia un'Italia che deve scegliere se fare un salto nel futuro
Stile amabile, artigli letali e semipresidenzialismo di fatto. Ha reso il paese più forte e meno corroso dai populismi. Tutti tranne uno: quello giudiziario. Un bilancio della presidenza, con un asterisco
Che anni sono stati gli anni governati da Sergio Mattarella? La giornata di oggi si concluderà con quello che dovrebbe essere, mettiamo un asterisco per spiegare poi il condizionale, l’ultimo discorso da presidente della Repubblica di Sergio Mattarella. E nell’attesa di ascoltare le parole del capo dello stato, per pesarle, per studiarle e per ragionarci su, e per capire in che senso il capo dello stato è convinto che “l’Italia ce la farà”, rispondere alla domanda da cui siamo partiti può essere utile non solo per tracciare un bilancio dell’ultimo settennato presidenziale ma anche per capire qualcosa in più rispetto a quelle che sono le prerogative non scritte che ha un capo dello stato.
Per dare una risposta alla nostra domanda bisogna però fare un piccolo sforzo, muovere un passo lontano dalle categorie mentali della politica e prendere in prestito dalla zoologia un’immagine che ci può aiutare a comprendere meglio quale è stata l’essenza del settennato mattarelliano. L’immagine in questione è quella, detto con massimo rispetto presidenziale, di un magnifico koala. E se ci si riflette un attimo non si farà molta fatica a capire perché il settennato di Mattarella ha avuto caratteristiche molto simili a quelle di un dolcissimo e violentissimo koala.
Da un lato, per quanto riguarda la forma, c’è certamente il profilo inoffensivo, lo stile amabile, il tono pacato, il passo vellutato, l’espressione mansueta. Dall’altro lato, per quanto riguarda la sostanza, ci sono invece le mascelle potenti, le zanne affilate e gli artigli lunghi utilizzabili non solo per difendersi, o per arrampicarsi, ma anche per sferrare attacchi risolutivi e a volte letali. Da questo punto di vista, il settennato di Mattarella è stato un arco temporale all’interno del quale il presidente koala ha mostrato in diverse occasioni entrambi i volti.
Nella prima parte del suo mandato, il presidente ha svolto un ruolo docile, vellutato e mansueto e d’altronde Mattarella venne scelto da Renzi per incarnare una stagione molto diversa rispetto a quella che poi Mattarella ha governato: Mattarella, lo ricorderete, venne eletto nel 2015 quando Matteo Renzi era sicuro che la sua riforma costituzionale sarebbe andata in porto e venne eletto con l’idea di rappresentare in modo plastico una nuova stagione caratterizzata da un premierato sempre più forte, con un “premier eletto dal popolo” e da un Quirinale un po’ più debole. La riforma costituzionale, come sappiamo, si è andata poi sfortunatamente a infrangere sul muro della realtà e Mattarella da presidente nominato per svolgere funzioni notarili (forma) è diventato come i suoi predecessori il simbolo di quel semipresidenzialismo di fatto (sostanza) che in Italia esiste in modo plastico più o meno dai tempi di Francesco Cossiga.
In questi sette anni, il non interventista Mattarella ha inciso sulla politica italiana non meno dell’interventista Giorgio Napolitano (quante volte abbiamo sentito dire in questi anni che il governo in carica era il governo del presidente?) e Mattarella lo ha fatto in particolare in alcuni passaggi chiave della storia recente della Repubblica.
Il primo passaggio, che in pochi ricordano, ha coinciso con l’incarico conferito a Paolo Gentiloni nel 2016, dopo la vittoria del No al referendum costituzionale, quando Matteo Renzi – per qualche giorno – cercò senza fortuna la carta del voto anticipato, per provare a capitalizzare il 40 per cento ottenuto dal Sì, e quando però Mattarella gli sbarrò la strada optando per una soluzione diversa, condivisa poi con lo stesso Renzi.
Il secondo passaggio in cui Mattarella ha iniziato a mostrare le zanne è avvenuto un anno dopo quando tra la segreteria del Pd (Renzi) e Palazzo Chigi (Gentiloni) si consumò una battaglia che ha creato ferite solo da poco rimarginate: Mattarella (e Gentiloni) chiedevano di rinnovare il mandato del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, Renzi chiedeva invece di non rinnovarlo accusando Visco di essere stato uno dei responsabili di alcuni grossi guai maturati negli anni precedenti all’interno delle banche italiane (Renzi arrivò a portare in Parlamento una mozione per condannare esplicitamente l’operato di Visco, rimproverando “l’efficacia dell’azione di vigilanza della Banca d’Italia messa in dubbio dall’emergere di ripetute e rilevanti situazioni di crisi o di dissesto di banche, che (…) avrebbero potuto essere mitigate nei loro effetti da una più incisiva e tempestiva attività di prevenzione e gestione delle crisi bancarie”).
Alla fine della partita, zac, Mattarella e Gentiloni ebbero la meglio sull’azionista di maggioranza del governo e i rapporti con Renzi, grande elettore del presidente della Repubblica, ne hanno risentito a lungo. Fu quello un piccolo passaggio, non decisivo per la storia della Repubblica, che permise però di osservare la capacità di incidere, sulla carne viva della politica, del koala del Quirinale.
E fu quello il preludio ad altre zannate ben più importanti, che il presidente della Repubblica è riuscito poi ad affondare grazie all’aiuto a volte volontario e altre volte involontario offerto successivamente da Matteo Renzi. Una zannata come quella del 2018, quando Mattarella, in piena zona gialloverde, dopo aver deciso di non dare l’incarico per formare il governo né a Matteo Salvini né a Luigi Di Maio per trovare una figura di mediazione in grado di esprimere un punto di sintesi tra i due populismi, disse di no, con un gesto più presidenziale che semipresidenziale, al ministro dell’Economia che avevano proposto Di Maio e Salvini (Paolo Savona). Una zannata che si andò a sommare a quella successiva del 2019, quando Mattarella fece di tutto e di più per convincere il Pd a unirsi in matrimonio con il M5s (il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, all’epoca voleva andare a votare, Renzi, già uscito dal Pd, fece di tutto per evitarlo).
Una zannata, infine, come quella del 2021, quando Mattarella, in piano caos pandemico, è riuscito, con successo sorprendente, a tirar fuori dal cilindro il nome di Mario Draghi, anche qui sostenuto indirettamente dall’azione apparentemente kamikaze di Renzi. Negli ultimi anni di Mattarella, durante i quali la Repubblica italiana ha fatto i conti prima con il più pericoloso governo mai avuto dall’Italia dal Dopoguerra a oggi (i gialloverdi) e poi con l’emergenza più grave mai avuta dall’Italia dai tempi delle guerre mondiali (la pandemia), la cifra della sua forza tranquilla, e forse il vero tratto distintivo del suo settennato, è stato quello di aver guidato l’Italia all’interno di una transizione formidabile che ha permesso al nostro paese di combattere il populismo prima mettendolo alla prova (un disastro) e poi creando le condizioni affinché i peggiori nemici del populismo diventassero gli stessi populisti (avete presente gli azionisti del governo gialloverde che votano con orgoglio contro le riforme approvate dal governo gialloverde? Ecco).
I sette anni di Mattarella verranno ricordati per questo, verranno ricordati per la sua forza tranquilla, verranno ricordati per il suo sincero sentimento di carità e attenzione verso i più deboli, verranno ricordati per il suo impegno contro i totalitarismi, verranno ricordati per l’attenzione non formale alla lotta contro l’antisemitismo, culminata con la nomina di Liliana Segre a senatore a vita nell’80esimo anniversario delle leggi razziali.
Ma verranno ricordati anche, vista la predisposizione all’interventismo da parte del presidente più arbitro che notaio, per la sua sorprendente debolezza in alcuni momenti chiave in cui la sua voce si sarebbe dovuta sentire con più forza, specie quando il capo dello stato ha mostrato un coraggio non all’altezza della sua presidenza di fronte agli abusi e alle disfunzioni di una parte non trascurabile della magistratura – sciogliere il Csm, nel momento del massimo discredito del Csm, sarebbe stata una scelta forse necessaria, ma ancor più necessario sarebbe stato intervenire con irruenza per combattere l’unica forma di populismo che dopo sette anni di presidenza Mattarella esercita con disinvoltura i pieni poteri: il populismo giudiziario.
Sette anni dopo, però, si può dire che, al netto degli errori, l’Italia guidata da Mattarella (un’Italia che, con discrezione, ha anche trasformato il trasformismo del Parlamento in un punto di forza della stabilità riformatrice del nostro paese, e non nel suo contrario) è un’Italia più forte, meno corrosa dal populismo, più rispettosa della democrazia rappresentativa, meno sedotta dai deliri della democrazia diretta e con più anticorpi per proteggersi dai molti virus antisistema esistenti nel nostro paese.
Se la Lega, ecco l’asterisco, deciderà, durante le votazioni quirinalizie, di votare per Mattarella, quello di oggi potrebbe non essere l’ultimo discorso da presidente della Repubblica. Se invece le cose dovessero andare in modo diverso, come qui pensiamo, si potrebbe dire che l’Italia che Mattarella lascia al suo successore è un’Italia che deve fare una scelta: premere il pulsante reset, e tornare a sette anni fa, o premere il pulsante continua, e far fare al paese un altro salto nel futuro, mettendolo nelle condizioni di passare dalla stagione dei koala a quella dei draghi.
E a proposito del futuro da draghi, “d” minuscola o maiuscola a vostra scelta, e a proposito della possibilità che il Quirinale sia un posto, come sostiene qualcuno, da pensionati, una domanda: negli ultimi sette anni d’Italia hanno avuto più continuità con il potere i cinque presidenti del Consiglio che si sono succeduti (Renzi, Gentiloni, Conte, Conte e Draghi) o l’unico presidente della Repubblica che li ha nominati? Risposta esatta. Viva i koala.