La pandemia ha reso più forte il bisogno di un posto a cui appartenere
Esiste una “domanda di nazione" che non ha nulla a che fare col sovranismo, ma è la ricerca di qualcosa di limitato e prossimo da cui aspettarsi protezione e promozione sociale
Il decennio a venire sarà nostro perché siamo la nazione di tutte le possibilità”. A pronunciare queste parole, durante una lunga intervista televisiva di metà dicembre, è stato il presidente francese Emmanuel Macron. Non possiamo attribuire la sua affermazione, non unicamente almeno, alla solita grandeur francese, visto che qui siamo di fronte a uno dei leader più europeisti del continente. Quella frase ci ricorda piuttosto che la nazione è un’idea, e un insieme di sentimenti collettivi, che non sono in contraddizione con l’appartenenza alla Ue e rappresentano una premessa essenziale della democrazia, come mostra il fatto che fino a oggi i regimi democratici sono nati ed esistono proprio nell’ambito di stati nazionali. Nel nostro paese tendiamo a dimenticarlo, portati fuori strada dall’uso che del richiamo all’identità e al sentimento nazionale fanno due partiti come la Lega e Fratelli d’Italia, i quali – animati da una sorta di pas d’ennemi à droite – occhieggiano più o meno esplicitamente a forze europee che si richiamano a una diversa idea di nazione, di tipo antiliberale e antidemocratico.
Fatto sta che nel dibattito pubblico italiano non ha avuto spazio quella nuova attenzione per l’idea di nazione a cui assistiamo da qualche anno e che la pandemia ha accentuato. Nel mondo anglosassone la Brexit per un verso e l’elezione di Trump alla presidenza americana per l’altro vennero giudicati da alcuni osservatori come l’esito di una contrapposizione tra anywheres e somewheres, tra le élite globalizzate e vincenti che si ritenevano cittadine del mondo e quanti, appartenenti soprattutto ai ceti popolari, si consideravano impoveriti in conseguenza della globalizzazione e si sentivano ancora legati a usi, costumi, valori tradizionali. Nella “domanda di nazione” dei somewheres c’era sicuramente un antistorico rifiuto del nuovo mondo globale, dei suoi modelli e dei suoi stessi ritmi accelerati di vita; ma c’era anche un bisogno di protezione che non aveva trovato risposte adeguate e si illudeva magari di trovarle nel ripristino dei vecchi confini britannici o nella rinascita della tradizionale America bianca. Proprio l’idea che le democrazie potessero accontentarsi di una forma di cittadinanza postnazionale e cosmopolita, insomma, aveva finito con l’alimentare nell’opinione pubblica, di quei paesi e non solo, delle forti tendenze populiste; ma ha poi favorito anche una riscoperta del nesso tra democrazia e nazione.
Pochi giorni fa il leader del Labour Party britannico, Keir Starmer, ha dichiarato che il suo è un partito non nazionalista ma nazionale, “perché la nazione ci dà un posto a cui appartenere”. E’ un’espressione che può apparire banale ma non lo è affatto. Le democrazie contemporanee, che hanno posto al centro la promozione di individui radicalmente liberi di autodeterminarsi, hanno finito spesso col pensare ai propri cittadini come semplici soggetti di diritti, sottovalutando il bisogno di appartenenza a qualcosa di più limitato e prossimo, nonché di meno anonimo, di una immaginaria cosmopoli democratica. In qualche modo lo aveva notato già Tocqueville quasi due secoli fa, quando scriveva che la democrazia, annullando i vincoli presenti nella società di antico regime, rendeva sì l’individuo finalmente libero ma minacciava anche “di rinchiuderlo tutto intero nella solitudine del proprio cuore”. E’ proprio per sfuggire a una tale solitudine, in fondo, che quello stesso XIX secolo in cui Tocqueville scriveva vide la diffusione in Europa dell’idea di nazione e la nascita di nuovi stati nazionali.
Ora, è certamente vero che lo stato nazionale assiste da tempo alla riduzione dei suoi poteri in conseguenza dei grandi processi di globalizzazione economico-finanziaria e di varie istituzioni sovranazionali, in primo luogo, per l’Italia e gli altri 26 paesi che vi appartengono, l’Unione europea. Tuttavia, è pur sempre ad esso, allo stato nazionale, che paghiamo le tasse ed è da esso che ci attendiamo le più varie misure di protezione e promozione sociale, dalle pensioni all’assistenza sanitaria, dalla repressione dei reati all’istruzione. Ma c’è anche un dato più profondo di tipo psicologico-culturale, quello che stava dietro l’osservazione di Tocqueville appena citata: per quanto possiamo essere partecipi delle vicende mondiali, per quanto possiamo sentirci cittadini europei, siamo generalmente portati a considerare i nostri connazionali come persone più vicine per tutta una serie di ovvie ragioni, a cominciare dalla maggior facilità di comunicazione determinata dalla lingua comune. Negli ultimi due anni, per giunta, la pandemia ha reso ancora più forte il bisogno di “un posto a cui appartenere”: cioè la propria nazione intesa sia come l’insieme delle istituzioni pubbliche dalle quali ci aspettiamo protezione sia come comunità di persone con le quali condividiamo rischi e pericoli legati alla diffusione del virus. Del resto, anche se seguiamo con interesse e preoccupazione la diffusione globale della pandemia, sono ogni giorno i dati dei contagi e delle vittime italiane che in primo luogo ci colpiscono. Forse, anche in conseguenza della pandemia, i partiti non sovranisti dovrebbero cercare di non demonizzare la “domanda di nazione”, evitando così che certi temi vengano monopolizzati dai partiti di Salvini e Meloni.