Con Draghi vince la politica
Compromesso, responsabilizzazione dei partiti, realismo che si afferma sull’anti politica. Cosa vuol dire affidarsi all'attuale premier per sette anni e non solo per sette giorni. Il Quirinale e due balle da smontare
A piccoli passi, giorno dopo giorno, la classe dirigente politica sta facendo i conti con alcuni tratti di realtà che, in vista della partita del Quirinale, appaiono sempre di più alla luce del sole. Il primo elemento di realtà riguarda una dinamica importante che i sostenitori della continuità a Palazzo Chigi sembrano voler ignorare. E la dinamica è questa ed è quasi algebrica. Draghi è il garante di cosa? Ovvio: di una maggioranza molto ampia. Se la maggioranza molto ampia si divide in modo traumatico per eleggere il presidente della Repubblica e per dire di no all’attuale presidente del Consiglio la maggioranza che sostiene questo governo subirà qualche ripercussione? Ovvio che sì. E se la maggioranza dovesse spaccarsi, potrebbe mai Draghi essere il garante di una maggioranza diversa, dopo essere stato bocciato dalla sua stessa maggioranza sul voto del Quirinale? Ovvio che no.
Dunque la scelta di fronte alla quale si trova oggi la politica non è tanto se salvare o no questa legislatura ma è decidere tra le altre cose se affidarsi a Draghi per i prossimi sette anni o affidarsi a Draghi solo per i prossimi sette giorni.
Il secondo elemento di realtà molto importante riguarda un tema sempre collegato al possibile, e auspicabile, passaggio di Mario Draghi al Quirinale e quel tema ha a che fare un po’ meno con la tattica e un po’ più con la sostanza. E in particolare ha a che fare con una balla che meriterebbe di essere smontata a puntino: il rischio di un commissariamento della politica generato dall’eventuale passaggio di Mario Draghi al Quirinale. Nel chiacchiericcio quotidiano, e nel dibattito da talk-show, l’idea che avere un super tecnico al Quirinale possa rappresentare una sconfitta della politica è ricorrente ma non tiene conto anche qui di altri dati di realtà che meriterebbero di essere messi in fila.
È un dato di realtà, per esempio, che l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi ha avuto l’effetto non di prosciugare ma di rivitalizzare i partiti, costringendoli a fare i conti con i propri tabù (dall’Europa alla giustizia), costringendoli a fare i conti con i propri difetti di leadership (il Pd e il M5s hanno due leader diversi da quelli che avevano prima che arrivasse Draghi) e costringendoli a fare i conti con i propri estremismi (dai vaccini alle regole per governare la pandemia). Draghi ha rivitalizzato i partiti non solo indicando alle varie forze presenti in Parlamento uno spazio vitale all’interno del quale far maturare l’espressione massima della politica, ovvero la mediazione, ovvero la negoziazione, ovvero il compromesso (come da lezione di Joseph Ratzinger, “non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”). Ma lo ha fatto anche accompagnando i partiti lungo un processo ancora più interessante all’interno del quale le varie forze presenti in Parlamento hanno compiuto passi più o meno pronunciati e più o meno espliciti utili a combattere alcuni istinti dell’antipolitica.
Abbiamo descritto più volte sulle nostre pagine lo show quotidiano dei populisti che hanno cercato in tutti i modi di rottamare con passione lo stesso populismo che hanno contribuito ad alimentare (pensate solo al M5s e alla Lega che in un Consiglio dei ministri del governo Draghi hanno votato all’unanimità per abrogare la legge che aboliva la prescrizione nei processi, votata all’unanimità dal governo guidato dal M5s e dalla Lega) e abbiamo raccontato più volte come in questi mesi di governo siano emersi anche nei partiti meno estranei al populismo tentativi sinceri di superare la stagione dell’antipolitica (e non è un caso che gli esponenti della Lega e del M5s che in questi mesi hanno cercato di smussare gli angoli dei propri partiti sono gli stessi che oggi sono impegnati nella campagna di costruzione della candidatura al Colle di Draghi: da Luigi Di Maio a Giancarlo Giorgetti).
Il reset che Draghi ha avviato nella sua stagione di governo non è dunque finalizzato al restringimento degli spazi di autonomia della politica ma è finalizzato a responsabilizzare i partiti attraverso la più politica delle operazioni possibili: combattere le pazzie dell’antipolitica a colpi di duro realismo politico. Affidarsi a Draghi per i prossimi sette anni e non solo per i prossimi sette giorni significherebbe anche questo.