La sfida di Draghi ai professorini della “open conspiracy”
Scegliere lui al Quirinale per zittire chi professa il sovranismo e lo dipinge come un Frankestein neoliberista e ordoliberista
C’è un motivo per scegliere Mario Draghi, non encomiastico, generico, messianico, coperto, ma politico e culturale, esplicito, chiaro. I suoi più irriducibili nemici ideologici, scrittori come Thomas Fazi, del giro di Varoufakis, un saggista e cineasta che ha lavorato con Gore Vidal e Noam Chomsky, i due tenori che gorgheggiavano e gorgheggiano sul capitalismo securitario assassino e neocoloniale, sostengono che Draghi è l’interprete e l’esecutore italiano, ma non solo italiano, di una trasformazione tecno-autoritaria della democrazia europea occidentale e della stessa antropologia del nostro paese; la sua opera & visione è per loro un impasto di neoliberalismo mercatista anglosassone e di ordoliberalismo tedesco, esprime un disegno di decenni, da quando Draghi era l’allievo di Rudiger Dornbusch e di Guido Carli e poi in successione direttore del Tesoro, managing executive di Goldman Sachs, capo di Bankitalia, presidente della Banca centrale europea.
Il disegno si è concretizzato in una “open conspiracy” per trasferire potere, per conto delle élite italiane che contavano su un vincolo esterno per domare il conflitto interno e recuperare affidabilità, all’autorità sovranazionale e intergovernativa europea, distruggere i poteri dei parlamenti e del corpo elettorale, inscenare infine il famoso “colpo di stato monetario” che con la complicità decisiva della Bce estromise dal potere Berlusconi e mise sul trono Mario Monti, uno dei capi di governo tecnico sulla scia di Ciampi; fino all’investitura diretta come premier dopo il Conte 1, castrato da Mattarella con il caso Savona, il ministro del Tesoro escluso per antieuropeismo, e il Conte 2, liquidato in favore di una presa di potere che aveva come sbocco la presidenza della Repubblica dopo lo stesso Mattarella.
Ennio Flaiano diceva che “oggi il cretino è pieno di idee”, ma qui non si tratta di cretini, sebbene le cretinate abbondino, sono persone informate, scrivono con parvente maestria, si fondano sugli studi di un assistente di talento dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, Adriano Cozzolino, che ha dedicato un libro alla trasformazione dello stato e del potere italiani come risvolto decisivo dell’impresa neoliberale nemica della democrazia e banditrice della dittatura delle élite. Purtroppo non conoscono la storia o la negano più o meno come fanno quelli di QAnon, sono capaci di scrivere un saggio sugli ultimi trenta-quaranta anni senza tenere conto della caduta del Muro di Berlino, del referendum sulla scala mobile, del thatcherismo e del reaganismo, della diffusione patologica del welfare state assistenzialista e della sua riforma sotto il carico del debito, dei deficit e della clamorosa perdita di produttività del lavoro e dei capitali, e senza fare cenno alle vere trasformazioni di sistema indotte dalla fine della Guerra fredda, della pianificazione centralizzata, del socialismo reale e delle sue appendici trasversali in un paese a egemonia comunista-cattolica, se non nella forma di una critica scontata e banale alla globalizzazione e alla società di mercato. La storia come storia della lotta di classe ebbe marxianamente una sua dignità, eccome, ma ripetuta come la filastrocca delle minoranze elitarie cattive che per conto di ricchi e mercanti organizzano la società in cui lo stato passa alle mani dei potenti e dei burocrati non eletti in disprezzo verso la democrazia politica, bè, fa una certa impressione. Quando sofisticati professorini che assaltano il cielo per l’ennesima volta lo fanno ricalcando uno a uno gli argomenti dell’internazionale nazionalista, sovranista e populista antieuro, il sospetto è che ci sia qualcosa che non va, e la scelta di Draghi sarebbe intanto un bel coperchio su questa pentola in cui ribolle il loro minestrone di argomenti, il Papeete dei dotti.
Ma c’è dell’altro. Chi disegna il ritratto à la Frankenstein del Draghi neoliberista o ordoliberista (che poi i due termini già non sono la stessa cosa) dimentica la equilibrata operazione di riassetto che Draghi ha compiuto su di sé nella modalità intellettuale e politica recente. L’uomo del Britannia e del whatever it takes, e lasciamo stare se siano stati meriti o demeriti, almeno per il momento, è anche il tecnico che si presenta sulla scena nel pieno e ostentato rispetto delle forme e procedure della politica parlamentare, con consultazioni per la formazione del governo durate settimane e mai così estese, e una lista di ministri e sottosegretari che esprime il suo decisionismo, con la sua squadra, e anche la complessità degli equilibri di una coalizione così ampia. E’ il silenzioso ex Bce che sul Financial Times, all’inizio dell’epidemia da virus Covid-19, scrive che c’è un debito buono e che il tempo dell’austerità è finito. E’ l’allievo di Dornbusch ma anche di Federico Caffè, imposta un programma di spesa anticiclico che, in continuità con il governo che lo aveva preceduto, largheggia in bonus e in spesa pubblica a ristoro delle perdite private.
Avevamo cercato di segnalare, prima che Draghi diventasse la scelta di Mattarella e della maggioranza che lo sostiene in quanto presidente del Consiglio, come l’ex presidente della Bce fosse un politico di raffinata tempra gesuitica, quanto alla prima formazione, e un eccellente mediatore di poteri e prerogative di stato, che è esattamente il mestiere tagliato su misura per un presidente della Repubblica che possa contare senza interferire. Poi succede che sia un europeista di primissima fila, un liberale keynesiano (ma anche Keynes si considerava un liberale) e una personalità di spessore e autorevolezza rari. Ecco, per quello che dicono straparlando di congiure all’aperto e colpi di stato monetari i suoi nemici, e per altre considerazioni qui sommariamente esposte, sarebbe strano se una mattina ci svegliassimo, alla fine di una votazione, e ci confessassimo che Mario Draghi era stato chiamato per dirigere un governo balneare.