UN NOME SOLO
Il peccato di rinunciare al candidato più autorevole per il Quirinale: Mario Draghi
Per il Colle ci sono tanti candidati rispettabili, ma nessuno offre le garanzie che dà il premier. Liquidandolo si elimina il garante di un paese dipendente dalla propria credibilità internazionale
A parte la magistratura militante, che ha esaurito non le sue ambizioni ma di certo la sua funzione e legittimità, pochi sono coloro che hanno sensibilmente contribuito a cambiamenti e riforme utili in Italia da quando, ai primi anni Novanta del secolo scorso, il vecchio sistema dei partiti fu schiantato da un’ondata di bassa demagogia. Bisognerebbe tenerne conto ora che si tratta di decidere se far saltare con giochini e giochetti di corta vista l’ultimo baricentro delle classi dirigenti, cioè Mario Draghi, sabotando con un voto a dispetto la maggioranza emergenziale di unità dell’ultimo anno, voluta dal capo dello stato in assenza di altre soluzioni politiche credibili, accettata da quel che resta dei partiti e guidata dal presidente del Consiglio in carica, anche come garante del piano di ripresa che la svolta europea della mutualizzazione del debito ha reso possibile.
I nomi di disturbo che volano per l’aria possono essere rispettabili, quando non siano ridicoli, ma di certo hanno avuto un’influenza marginale sugli ultimi trent’anni di storia italiana. Diverso il caso per Draghi, che ha impostato privatizzazioni e tentato liberalizzazioni, a parte i suoi meriti nella salvezza dell’euro e dell’economia italiana, condivisi in un certo senso con Monti; Beniamino Andreatta, anche lui tra gli svoltisti europeisti dell’ordine economico e sociale italiano, uno che si pose alle origini dell’Ulivo di Prodi e del Pd.
Berlusconi, che ha incarnato il maggioritario, reso popolare una forma imperfetta ma sonante di liberalismo, uno che ha riformato il mercato dei consumi con la tv privata e contribuito decisivamente alla modernizzazione di sistema; Umberto Bossi, che ha incanalato verso il governo la tumultuosa ascesa del localismo regionalista dei leghisti, fino alla trasformazione salviniana che ha tentato un impossibile snaturamento del progetto in senso nazionalista-populista ma ne può salvare il nucleo fondante. Sono tutti soggetti che hanno battagliato tra loro, che esprimono una compagine varia e conflittuale di interessi in opposizione. Ma è gente che ha contato, e molto, nella nostra vita degli ultimi trent’anni, dopo il crepuscolo degli dèi della Prima Repubblica (di cui ovviamente avevano fatto parte, ciascuno a proprio modo, perché ex nihilo nihil fit o gignitur).
Di tutti costoro, in corsa per il Quirinale, sette anni di presidenza con ampi poteri e limiti conosciuti, c’è il solo Draghi, e liquidarlo con un diversivo non significa mantenerlo alla guida del governo e rilanciare la politica ma rinunciare a un presidente autorevole, garante di un paese fortemente dipendente dalla propria credibilità internazionale, e svalutare gravemente le residue risorse della politica. Non vedo i partiti risalire la china dopo l’elezione contrastata e infida di un Tizio o di una Tizia di non grande importanza, ché questo significa vagheggiare l’impossibile, vedo invece i partiti giocare a carte coperte e cinguettii, fra cose serie e cose meno serie, per negoziare la ripresa di una più responsabile influenza della politica elettiva sullo stato e la società dopo l’ingresso al Quirinale di uno che ha avuto qualcosa da dire e da fare di speciale negli ultimi trenta. Lenin diceva “Soviet più elettrificazione”, oggi più modestamente si può dire “Draghi più politica”.