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storia della repubblica

Un divisivo al Quirinale: gli anni della presidenza di Cossiga

Francesco Cundari

Doveva essere un presidente discreto, è diventato il "Picconatore": Francesco Cossiga e la difficile arte dell’“unità nazionale”

La prima cosa che s’impara quando si comincia a interessarsi dell’elezione del presidente della Repubblica, cercando di capire quali siano i criteri secondo cui lo si dovrebbe scegliere, è che non può essere divisivo. Il capo dello stato, in Italia, è come la mamma, come Garibaldi, come il presepe: deve piacere a tutti, per forza. O meglio: per funzione.

 

Pertanto, quando si tratta di sceglierne uno, la prima caratteristica che si richiede al candidato (oltre a quella di non essersi candidato, s’intende, perché già il semplice atto di proporre se stessi, e non qualcun altro, dimostrerebbe immediatamente l’assenza dei requisiti) è che sia condiviso. Largamente condiviso. Quanto più largamente possibile. Non per niente, all’articolo 87, la Costituzione dice che il presidente della Repubblica “rappresenta l’unità nazionale”. Il che significa che tutti, ma proprio tutti, devono potersi riconoscere in lui. Il candidato giusto dev’essere dunque una personalità eminente, autorevole, rassicurante, ma soprattutto ecumenica. In due parole: non divisiva.

 

 Il capo dello stato, in Italia, è come la mamma, come Garibaldi, come il presepe: deve piacere a tutti, per forza. O meglio: per funzione

 

Breve e non esaustiva rassegna dei giudizi espressi nel corso del suo mandato da Francesco Cossiga – primo capo dello stato nella storia della Repubblica a essere eletto trionfalmente alla prima votazione, il pomeriggio del 24 giugno 1985, con la bellezza di 752 voti su 979 – a proposito dei principali protagonisti della politica italiana. Sul leader democristiano Ciriaco De Mita: “Un boss di provincia”. Sul segretario del Pds Achille Occhetto: “Uno zombie coi baffi”. Sul vicepresidente della Camera Michele Zolla: “Un analfabeta di ritorno”. Sul ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino: “Un analfabeta e basta”. Sul deputato del Pds, ed ex magistrato, Luciano Violante: “Un piccolo Vyshinsky”. Sul sindaco di Palermo Leoluca Orlando (e sul suo consigliere, padre Ennio Pintacuda): “Un povero ragazzo, uno sbandato, che danneggia l’unità della lotta alla mafia, mal consigliato da un prete fanatico che crede di vivere nel Paraguay del Seicento”. Sul Pds nel suo complesso: “Gnomi, giocatori di tre carte, nipoti falliti di Stalin”.

 

Quest’ultima sfilza di carinerie Cossiga la pronuncia nel corso di un’intervista al Gr1, il 21 maggio 1991, in risposta ad alcune interpellanze parlamentari contro di lui. L’intervista si conclude con una singolare provocazione verso i suoi critici: “Perché non scegliere la strada dell’impeachment?”. Come è noto, non si faranno pregare.

 

Bisogna inoltre considerare che il presidente, non mancando di fantasia, alle parole sferzanti accompagna anche un’altra singolare forma di derisione, quella che potremmo definire la tecnica del regalo insultante. Filippo Ceccarelli ne ha stilato un elenco minuzioso (“Invano”, Feltrinelli): “Trenta monete di cioccolato al senatore dc Franco Mazzola, suo ex amico, per dirgli che l’aveva tradito; un paio di pantaloncini tirolesi con prolunghe di cuoio a Stefano Rodotà, a significare che non era disposto a farsi prendere per i fondelli; teche di vetro con fiocco contenenti pezzetti del Muro di Berlino destinati ai pidiessini Tortorella, Onorato e Imposimato; pannolini Pampers Baby per il senatore, sempre del Pds, Cesare Salvi; il gioco da tavolo del piccolo detective Super Cluedo, un cavalluccio a dondolo, un triciclo e un salvagente con paperella per l’allora procuratore di Palmi Agostino Cordova, responsabile di un’indagine sulla massoneria che il presidente della Repubblica non aveva gradito”.

 

Questi sommari cenni, lo dico per i lettori più giovani, vanno considerati come nient’altro che un campione rappresentativo, essendo soltanto una minima parte del profluvio di giudizi, gesti e gestacci che con crescente difficoltà la paludata prassi quirinalistica tenta di ingabbiare nell’algida definizione di “esternazioni” presidenziali. E che presto tutti cominciano a definire, più propriamente, “picconate”, compreso l’interessato, che diviene così “il picconatore”.

 

Conduce la sua battaglia in appartamento, in pigiama, dettandomi comunicati e facendosi intervistare dalle radio. Un vero inferno

 

Insomma, l’ultimo presidente della Prima Repubblica – o il primo della Seconda, della quale è stato un promotore e un anticipatore – è stato anche, senz’ombra di dubbio, il più divisivo. E pensare che all’indomani della sua solenne incoronazione, Indro Montanelli aveva profetizzato: “Immagino lo sconforto di Forattini nell’apprendere la sua elezione. Con Cossiga, anche un vignettista della sua fantasia troverà poco da ridere o da rodere”. E per diversi anni, in effetti, è stato proprio così. Ancora nel 1988 Edoardo Pittalis e Alberto Sensini possono dare alle stampe una biografia dal titolo: Francesco Cossiga – Il gusto della discrezione. Lui stesso, anni dopo, si descriverà così, in quei primi anni da presidente: “Ero un signore modello, intimidito, inchinevole”. Montanelli aveva scritto anche: “Non correrà dovunque sia puntata una macchina da ripresa della tv”. Nel solo 1991, è stato calcolato, Cossiga apparirà in televisione per un totale di 400 ore.  

 

“Conduce la sua battaglia in appartamento, in pigiama, dettandomi comunicati e facendosi intervistare dalle radio. Un vero inferno”, si sfoga Ludovico Ortona, consigliere incaricato dei rapporti con la stampa, nel suo diario di quell’anno (La svolta di Francesco Cossiga. Diario del settennato 1985-1992, Aragno). Ma forse la vera chiave del personaggio, e del suo improvviso mutamento, sta in un altro passaggio di quei diari, nella nota del 12 novembre 1988: “Il presidente fa un’osservazione interessante e cioè che se Gorbaciov volesse davvero provocare degli scossoni violenti al centro dell’Europa dovrebbe pensare all’abbattimento del muro di Berlino”.

 

Quando gli scossoni arrivano, e il Muro cade davvero, esattamente un anno dopo, il 9 novembre 1989, Cossiga si fa dunque trovare pronto. Forse anche più di molti suoi colleghi. Forse anche troppo. Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1990, durante un viaggio in Francia, i suoi discorsi assumono per la prima volta un carattere di critica verso i partiti, cui fa appello affinché non riducano la politica a “pura contesa per il potere”. Il futuro incalza. La fine della Guerra fredda, la riunificazione della Germania, la partecipazione a un mercato unico e a un’Europa politicamente unitaria, prevede, imporranno di adattare i nostri meccanismi istituzionali a quelli delle altre democrazie europee.
Nel frattempo, alle elezioni amministrative di maggio, si conferma la crisi dei partiti di governo, e anche l’arretramento del Pci, mentre un partito appena nato, la Lega Nord, balza inaspettatamente al 20 per cento.

 

È nel 1990, durante un viaggio in Francia, che  i suoi discorsi assumono per la prima volta un carattere di critica verso i partiti

 

Ma è in autunno che tante diverse ragioni di tensione interne e internazionali, politiche e personali, si intrecciano e si sommano d’improvviso. Il 23 ottobre, alla vigilia della partenza per un viaggio in Inghilterra, Cossiga dà un’ampia intervista all’Independent in cui torna sulle grandi questioni aperte dalla caduta del Muro di Berlino, dicendosi convinto che il Partito comunista abbia “l’occasione di fornire un notevole contributo alla costruzione di un’Italia più giusta e più moderna, perché finora il sistema democratico è stato bloccato nel punto più delicato possibile, quello dei sistemi d’alternanza”. 

Giusto il giorno dopo, il 24 ottobre, rispondendo a un’interrogazione parlamentare sul clamoroso ritrovamento di nuove pagine del Memoriale di Aldo Moro nel covo brigatista di via Monte Nevoso, avvenuto poche settimane prima, Giulio Andreotti decide di rivelare l’esistenza della struttura paramilitare Gladio, di cui si parla anche in quelle carte. Dichiara alla Camera il presidente del Consiglio: “Si tratta di una istituzione che esiste nel quadro della Nato e che, riproducendo quella che fu la vita vissuta nel periodo dell’occupazione nazista, prevedeva, in caso di occupazione da parte di forze nemiche, che vi fosse una rete di salvaguardia, sia informativa sia di reazione”.

In meno di un mese, per Cossiga, si tratta di una scarica di colpi micidiale: prima il ritrovamento delle carte contenenti il frutto degli interrogatori di Moro da parte dei brigatisti, con una lunga parte dedicata proprio a lui, discepolo e amico dello statista democristiano, ministro dell’Interno in quei giorni terribili (“Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle – dirà in un’intervista – è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro”); quindi la decisione di Andreotti di rivelare l’esistenza di Gladio, in cui Cossiga aveva avuto un ruolo, suscitando una durissima reazione del Pci, che si indirizza anzitutto contro di lui; infine la richiesta del giudice Felice Casson, al quale lo stesso Andreotti aveva aperto gli archivi, di interrogare il presidente (che rifiuterà sdegnato) su quella rete paramilitare clandestina che è diventata ormai il principale terreno dello scontro politico.

Di qui in poi, tragedia e farsa diventano inestricabili, tutti i ruoli si scambiano e si confondono. Cossiga è l’erede di Moro che voleva portare a compimento il suo disegno di piena inclusione dei comunisti nel gioco democratico, ed è al tempo stesso il loro nemico numero uno, l’uomo dei servizi e degli americani. E’ il leader che ha visto prima di tutti la crisi del vecchio sistema e si fa promotore della sua riforma, anche istituzionale, ed è al tempo stesso il custode e il burattinaio di tutte le più oscure trame dell’antico regime.

Come ha ricordato Claudio Petruccioli, allora importante esponente della segreteria di Occhetto (“Rendiconto”, ripubblicato nel 2020 in edizione aggiornata dalla Nave di Teseo), all’inizio del 1991 il Partito democratico della sinistra, appena nato tra mille difficoltà dalle ceneri del Pci, non poteva andare alle elezioni “avendo di fronte la parete liscia dell’immutabile pentapartito e alle spalle Cossiga interprete del nuovo”. Un nuovo di cui si erano già fatti portabandiera leghisti e missini (Gianfranco Fini e Francesco Storace si fanno fare persino dei picconcini d’oro da mettere al bavero), pronto però a offrirsi come ricambio al vecchio blocco di governo. “La scelta vera era: a favore o contro. Come potevamo schierarci a favore? Avremmo dovuto dire: nella sostanza ha ragione. Non era possibile. Il suo ‘riformismo’ e i suoi intenti politici erano troppo lontani dai nostri; partito, sinistra, elettori non ci avrebbero capito, né seguito”.

 

È il leader che ha visto prima di tutti la crisi del vecchio sistema e si fa promotore della sua riforma, anche istituzionale. L’eredità di Moro

 

Finisce con la richiesta di impeachment. E con gli zombie coi baffi. Lo stato d’animo della sinistra è efficacemente riassunto da una prima pagina di Cuore: “Seconda Repubblica? Va bene! Inno Nazionale in sardo? Benissimo! Abolire il Parlamento? Meraviglioso! Presidente a Vita? Ottimo! CI ARRENDIAMO, BASTA CHE STAI ZITTO”. Lui sarà tentato di accontentarli, specialmente nel clamoroso non-discorso di fine anno del 1991, tre minuti in tutto, in cui scandisce: “Non certo mancanza di coraggio o peggio resa verso le intimidazioni ma il dovere sommo, e direi quasi disperato, della prudenza sembra consigliare di non dire, in questa solenne e serena circostanza, tutto quello che in spirito e dovere di sincerità si dovrebbe dire; tuttavia, parlare non dicendo, tacendo anzi quello che tacere non si dovrebbe, non sarebbe conforme alla mia dignità di uomo libero, al mio costume di schiettezza, ai miei doveri nei confronti della nazione”. Ma ovviamente a tacere non si rassegnerà mai. Nemmeno dopo le sue dimissioni, a pochi mesi dalla scadenza, il 25 aprile (un altro segnale) del 1992.

Cossiga vivrà ancora una stagione da protagonista della scena politica, per quanto breve, nel 1998, con la crisi del primo governo di Romano Prodi. Dal suo seggio di senatore a vita, il presidente emerito guiderà una pattuglia di transfughi centristi, radunati sotto l’altisonante sigla di Unione Democratica per la Repubblica, con cui favorirà la nascita del governo di Massimo D’Alema. Per un motivo o per l’altro, per vendicarsi di quella sinistra democristiana contro cui aveva a lungo combattuto o invece per vedersi finalmente riconosciuto (almeno da se stesso) il ruolo di degno successore e continuatore di Moro, è Cossiga a portare il primo postcomunista a Palazzo Chigi. A condizione, però, che l’operazione sancisca il ritorno al “centro-sinistra scritto col trattino”, vale a dire la fine del progetto ulivista. Perché ciò che ci divide è anche ciò che ci distingue. E Cossiga a distinguersi ci tiene di sicuro.

Per la cronaca, nel discorso del presidente del Consiglio incaricato, “centrosinistra” è scritto in tre modi diversi: con il trattino (come voleva Cossiga), senza trattino (come volevano gli ulivisti) e pure staccato (che non glielo chiedeva nessuno, ma a quel punto, si sarà detto, esageriamo). Questa però è davvero, in tutti i sensi, un’altra storia.