I negoziati di Chigi

Draghi tratta con Salvini, Conte e Letta, ma ancora non basta. È la vendetta della politica

Carmelo Caruso

I leader vogliono rassicurazioni sul governo e in parte le ricevono. Il premier è pronto a rilanciare con la Lega. I partiti intanto esultano per aver reso il tecnico Draghi un politico come tutti

Lo vogliono eleggere presidente, ma solo dopo averlo “sporcato come eccellenza”. Ieri, Mario Draghi ha trattato la sua “libertà”. E’ tornato di mattina da Città della Pieve, ma a ora di pranzo lo hanno visto allontanarsi dal suo ufficio di Palazzo Chigi. Dopo pochi minuti, alla Camera, si diffondeva la notizia che Matteo Salvini lo avesse incontrato. Di sera che Draghi avesse telefonato a Enrico Letta e a Giuseppe Conte. E al Parlamento bastava saperlo “negoziare”, e che “Francoforte era dunque caduta”, per gioire e rivendicare la vittoria: “Si è dimostrato che Draghi è un barattiere come tutti. E’ come noi”. E’ stata  la giornata del “bianco” e non solo perché è il colore degli appannati ma perché le schede bianche sono state 672. Gli altri voti: Maddalena (36), Mattarella (16) Cartabia (9).


E infatti, i parlamentari sorridevano come se ieri, a Draghi, gli avessero strappato la maschera, e poi una libbra di carne, “questa è la libbra Bce”. Un deputato leghista, uno di buone letture, recitava addirittura il Mercante di Venezia: “Per un anno ci ha guardato come Antonio guardava Shylock. E non ha forse occhi un politico? Non si nutre forse dello stesso cibo di cui si nutre Draghi? Per un anno non c’è stato che lui adesso è  nulla senza di noi”. Pier Luigi Bersani che è il Montaigne di Bettola, il moralista rosso, diceva che quanto stava accadendo a Chigi non “è uno spettacolo che fa onore alla Repubblica”. A Chigi replicavano invece che non stesse accadendo proprio niente e che l’unico appuntamento in agenda del presidente era “quello con i genitori di Giulio Regeni tenuto di mattina alle ore 11:30”. E di Letta? “Non si commenta”. Che significa che non si smentiva. Ed era come se su questo Palazzo si riversasse il mare della diceria e che, per quanto poderose, le piccole braccia della comunicazione del presidente non potessero fermarlo. Era come se il governo fosse stato attaccato da potentissimi hacker che avevano come obiettivo quello di scatenare il caos che, si sa, “favorisce la carta Mattarella…”. Se ne contavano almeno 1007 di questi potenti ingegneri che era poi il numero dei “grandi elettori” che hanno un loro segreto blasone e che non sopportano “il declassamento della politica”. Sono onorevoli ma tendenza Cgil. Sono ormai tutti sindacalisti: il deputato è il bracciante di questo tempo. Sembra passato un secolo da quando si scambiavano i paper, quelli internazionali, che definivano Draghi “the lender of last resort”, l’ultima possibilità prima della “bancarotta”.

 

Oggi si eccitano all’idea di farlo tremare. E’ possibile che, alla fine, lo eleggano presidente della Repubblica, magari accadrà, ma non lo faranno con il sorriso. Se dovessero scegliere il suo nome lo accompagnerebbero con il Requiem di Mozart. Se resterà  premier “gli chiederanno il corposo rimpasto”. Gianfranco Micciché, che è il vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana, e oggi grande elettore, uno che in famiglia può vantare anche lui un “drago”, il fratello Gaetano, presidente di Banca Imi, spiega che il destino di questi uomini, uomini come Draghi, è sempre complesso: “Possono fare bene tutto, ma solo se sono pronti a tutto. Si devono sporcare con la politica”. Sta provando a convincere il fratello a candidarsi presidente di regione un po’ come, raccontano, si stia cercando di convincere Draghi che “deve cedere qualcosa a Salvini”, quindi alla politica, e che in questi casi “è inevitabile”. Si rivedranno ancora oggi.

 

E quasi tutti, nella Lega, dicono che “l’accordo è a un passo” e che se solo il premier fosse più “duttile”, insomma “noi saremo compatti”. E dai sotterranei di Palazzo Chigi, dove si negozia la liberazione dell’ostaggio, si confermava che anche il primo incontro tra Draghi e Salvini lascia “ben sperare”. Giancarlo Giorgetti, che confermava, anche lui, la trattativa, “si stanno vedendo”, diceva che in “ogni caso il mio lavoro è finito”. E non si sapeva se lo dicesse perché si è stancato di fare il ministro o perché essendo Giorgetti non vuole fare la fine del ministro di un governo di sbandati in piena campagna elettorale. Su una cosa non ha mai cambiato idea. Ha sempre detto che il Quirinale fosse l’unica uscita di sicurezza per Draghi e forse lo diceva perché sa che “la competenza è antipatica”. Per una volta risultava infatti simpatica la sua “prigionia” e si sghignazzava all’idea di “tenerlo ancora un po’ li. Tanto che fa? Si dimette?”. I partiti potrebbero farlo vincere solo se si presenterà, come la Signora Ponza in “Così è se vi pare” che alla fine accetta tutto, tanto “per me, io sono colei che mi si crede”.

 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio