Salvini rinuncia alla prova di forza, e ora ragiona su Casini
Salvini resta solo, ora che anche Conte è messo alle strette da Di Maio. La coalizione con FdI e Forza Italia diventa una polveriera
La giornata di passione del capo leghista. La mezza rivolta dei suoi gruppi, l'incontro con Cassese (con smentita farlocca). "Casini? Matteo ci sta pensando", dice Romeo ai senatori. Poi però la Meloni lo induce a ripensarci. Ma da Arcore arrivano rassicurazioni a Renzi e al Pd: "Anche il Cav. si va convincendo su Pier Ferdinando". Notte di trattative, poi un nuovo vertice di centrodestra
Voleva mettere tutti nel sacco e invece, alla fine, nel sacco ci si stava ritrovando lui. Per questo alla fine Matteo Salvini ha capito che doveva provare a sparigliare, a passare dalla diplomazia della guerra a quella della mediazione. Coi suoi tempi, però. “Lo sa anche lui che quasi sicuramente bisognerà chiuderla su Draghi o Casini”, si dicono, parlando tra loro, Matteo Renzi e Giancarlo Giorgetti. Al che il leader di Iv si domanda cosa ci sia che ancora lo trattiene. Ma il ministro leghista predica cautela, perché il Carroccio ha i suoi riti e i suoi tempi. Per cui è probabile, quando sono le nove di sera, che la giornata di oggi servirà per trovare un’intesa.
Si capirà nella notte se l’accordo varrà a evitare che pure il quarto scrutinio si consumi nell’inconcludenza. La candidatura di Elisabetta Casellati s’è sfarinata nel corso della giornata, del resto, tra i malumori della sua stessa parte. Antonio Tajani allarga le braccia, quando gli chiedono di commentare le strambe manovre di Salvini: “Lui ci chiede fiducia, di dargli tempo e fiducia”, sbuffa. Paolo Barelli, però, a ora di pranzo fa rapporto al ministro Maria Stella Gelmini. E di tempo e pazienza sembrano esserne rimasti pochi: “Tra due giorni suona la campana e ci prendiamo tutti Draghi”, dice Barelli, “anche se qui il 95 per cento dei parlamentari non lo vuole. Leu e M5s preferirebbero chiuderla su Mattarella, noi di FI e gli altri del centro su Casini. Ma Salvini su Pier Ferdinando non vuole ancora convincersi”.
Si convincerà. Almeno a fidarsi di quanto Massimiliano Romeo, presidente dei leghisti al Senato, riferisce ai colleghi del Pd a metà pomeriggio: “Matteo si sta convincendo”. E forse a spingerlo sulla via della negoziazione è anche la fibrillazione che si registra nel suo partito. Martedì, nei conciliaboli dei lumbàrd, il risentimento è nato alla lettura dei tre nomi proposti come papabili. “Nessuno della Lega? Ma perché, Calderoli cos’ha in meno di Pera?”. Ed ecco allora che nel segreto dell’urna, ieri sono saltati 19 voti per Giorgetti. Sommati ai 7 per Bossi, segnalano una crepa preoccupante, in un partito stalinista. Anche perché nel frattempo la Meloni, che coglie il momento e spera nel caos per arrivare a Draghi, s’impunta su una candidatura di bandiera del “suo” Carlo Nordio, e vistasi stoppata dagli alleati, lancia l’ancor più “suo” Guido Crosetto. Che incassa 114 voti, 61 in più di quelli che FdI avrebbe a disposizione. “E’ un modo per dirgli che così non andiamo avanti”, dice Giovanni Toti. Che nel frattempo fomenta un’altra operazione, in asse con Matteo Renzi e un pezzo di Pd franceschiniano: ed ecco 52 voti per Casini. Il centrodestra è una polveriera, e nella Lega si contano i danni. “Se Matteo ci porta al voto sulla Casellati, domani, saltiamo per aria”. Tra Salvini e Meloni va avanti per tutta la giornata una guerra di nervi che logora tutti. E infatti a ora di cena, quando sembra che anche il Cav. sia pronto a lasciarsi convincere su Casini, quando da Arcore arrivano agli alti pontieri del Pd rassicurazioni, ecco che dalla stretta cerchia del capo leghista arriva un mezzo ripensamento: “Matteo ha un problema con la Meloni, su Casini”.
E così Salvini vive la sua giornata di passione. Tentenna, rimugina. Telefona a imprenditori e leader politici. A metà pomeriggio sale in macchina e raggiunge Sabino Cassese a casa sua, ai Parioli. Poi smentirà, ma come si fa quando si è presi con le mani nella marmellata. Del resto al capo della Lega la terra inizia mancare sotto i piedi. Perché anche il suo potenziale alleato, Giuseppe Conte, quello con cui sperava di fregare tutti gli altri, si ritrova impantanato nella palude che gli prepara il suo più acerrimo nemico. E cioè quel Luigi Di Maio che di buon mattino intercetta le intenzioni bellicose di un manipolo di senatori grillini dissidenti – Primo Di Nicola, Nicola Toninelli – e dice ai suoi di assecondarne le manovre: vengono fuori 125 schede per Mattarella. “E’ il segnale che Conte non controlla più i gruppi”, esultano i soldati dimaiani, riuniti nell’ufficio del deputato Luigi Iovino insieme al loro leader. Lì fuori, ma lontano anni luce, Matteo Renzi – che ha già parlato con Speranza e Letta – incontra Stefano Patuanelli. Sono le manovre frenetiche che preludono all’intesa. E del resto Di Maio, incrociando Casini alla Camera, in mattinata gli aveva soffiato nell’orecchio una promessa dorotea: “Noi arriviamo dove dobbiamo arrivare”. Forse ci si arriverà già stanotte. Forse domattina, quando Salvini convocherà i leader del centrodestra a ridosso della quarta votazione. Oppure servirà un altro giorno ancora: ma con la sensazione che la direzione sia segnata.