Silvio Berlusconi (LaPresse)

La telefonata

Draghi apre un canale con Berlusconi, Tajani a Chigi. Il Cav. dissimula ma sorride

Carmelo Caruso

La Lega del Nord tifa per il premier, che si muove. Prima telefona al numero uno di Forza Italia, poi incontra Tajani a Palazzo Chigi. In Parlamento credono ancora che si arriverà al suo nome

E’ la telefonata “di salute”, quella tra Mario Draghi e Silvio Berlusconi, ma è anche la chiamata del “finalmente”, la conversazione che (ancora) non risolve ma che sicuramente scioglie (gli animi). E non solo, perché dopo poche ore dal quel “ciao, come stai?”, Antonio Tajani, come anticipato dal Foglio, veniva ricevuto a Palazzo Chigi, ma perché un equivoco si riparava. E infatti, il “Pronto, sono Mario”, non veniva definito “cordiale”, ma di più: era “affettuoso”. Era insomma la telefonata tra vecchi amici, quella tra uomini di gomito che commentano gli inciampi del tempo.


Vittorio Sgarbi, che ha evidentemente una passione per questo strumento, come quella che in pittura aveva Roy Lichtenstein, la definiva, alla Camera, “la telefonata epifania”. Il nome di Draghi, confermava Lorenzo Fontana, che è vicesegretario della Lega, rimane nell’aria, è la materia immateriale, perché “è lo spirito”. Si è trasformata quindi nel “fatto”, nella “chiamata outsider”, che non è vero, spiegavano a Palazzo Chigi, si rimandava perché non si desiderava fare. In Forza Italia, di mattina, dopo la notizia, esclamavano dunque “evviva, anche se non cambia nulla. Draghi deve restare a Palazzo Chigi, anche se con Berlusconi non si può mai dire”. Di sera produceva infatti, come effetto, questo speciale “incontro” tra Tajani e il premier che da Chigi “era più che positivo”. Il solito, e indomabile, Sgarbi, anticipava che adesso la prossima mossa di Berlusconi sarà “istruire i ragazzi e spingerli su Draghi”.

 

E per “ragazzi” intendeva, e lo faceva da artista “scapigliato”, Salvini e Meloni. Alla fine, in Forza Italia, si speculava perfino su chi avesse consigliato al premier questa “mossa”. Veniva fuori il solito nome di Gianni Letta, mentre altri suggerivano che l’ostacolo fosse proprio Letta. Ma anche questo fa parte della confusione. Raccontano che, sul serio, Draghi abbia provato a cercare Berlusconi già negli scorsi giorni e che però il collegamento non fosse facile e che arrivare a lui, in queste ore di terapie e medicamenti, era impedito. Hanno parlato di salute, la salute del Cavaliere, che non è mai solo la salute di Berlusconi. Il funzionamento delle sue arterie equivale al funzionamento del centrodestra e la sua pressione misura invece lo stato di unità della coalizione. Maurizio Gasparri, che è un uomo di parola, spiegava che “Draghi ci piace, ma ci piace di più se rimane dove sta”.

 

E a Palazzo Chigi, garantivano, anche per sgomberare l’idea che si è gonfiata, quella di un premier che “se non eletto ribalterebbe il tavolo”, che mai e poi mai lo farebbe e che accettando l’incarico di premier, lo abbia accettato con questa inclinazione: “Farò quello che il paese mi chiede di fare”. Giancarlo Giorgetti, prima di andare a votare, si muoveva per Draghi perché Draghi, faceva sapere, “oggi si muove” ma riteneva la carta Sabino Cassese non del tutto una fantasia, il che non significa che la auspicasse. In Transatlantico, anche i parlamentari del M5s, dicevano che se solo Draghi accettasse “di trattare sul nuovo governo, se solamente Draghi ci rassicurasse, tutto sarebbe più semplice”.

 

Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, che è stato maltrattato dalla stampa, e con una furia che non si dovrebbe mai assecondare, ragionava, come fanno al nord, sul lungo termine e si chiedeva infine: “Se non eleggiamo Draghi ora, quanto è alto il rischio di perderlo dopo? Io mi faccio queste domande”. Insieme a Luca Zaia, che ha un consenso straordinario e non solo in Veneto, un consenso che gli permetterebbe di occupare qualsiasi altra carica pubblica e quindi di non temere il futuro, spiegava “politicamente” che non “bisognerebbe mai avere paura delle elezioni”. C’è un nord, un pezzo d’Italia che questi governatori rappresentano pienamente, che quando pensa a Draghi pensa al buon cemento, alla solidità, alle autostrade a scorrimento veloce, ai mercati che non ballano. E’ tutta gente che adora l’esempio della Merkel e che ritiene Draghi  una polizza rischi. Giovanni Toti, un altro che ha tifato, e tifa, per Draghi, allargava le braccia come a dire “noi governatori quello che potevamo fare lo abbiamo fatto”. Non c’è dubbio che siano diversi da questo parlamento che nessuno ama più ma che tutti, senatori e deputati, vogliono congelare. Ancora dalla Camera: “Draghi deve fare i conti con noi”. Sono arrivati alla quinta votazione e rimangono ancora convinti che “alla fine può essere lui”. Se solo lui fosse un po’ come loro.


 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio