onore delle armi
Forza Draghi. Un elogio di chi ci ha provato
Letta, Giorgetti, Fedriga, Zaia, Di Maio, Renzi, Toti, Brugnaro. E Meloni? Oltre il voto c’è di più. La battaglia quirinalizia ha illuminato un fronte trasversale che avrà un peso nel futuro. Una lode
La giornata politica di ieri, prima dell’arrivo delle notizie su Elisabetta Belloni, ci consegna una doppia verità difficile da smentire. La prima verità è quella che riguarda il centrodestra che ha scelto di contarsi in Aula sul nome di Maria Elisabetta Alberti Casellati non solo per ragioni autolesionistiche (circa cento franchi tiratori) ma anche per arrivare all’appuntamento di oggi con quella che potrebbe essere la votazione decisiva nella condizione di chi ora può dire: noi le abbiamo tentate tutte.
La seconda verità è quella che riguarda una consapevolezza che è emersa con chiarezza nel corso delle trattative fra centrodestra e centrosinistra e quella consapevolezza ha a che fare con la presenza sul terreno di gioco di un partito invisibile che ha scelto in diversi momenti della settimana di mettere in atto con coraggio il proprio whatever it takes per non macchiarsi di un delitto politico: il draghicidio.
Un partito trasversale che fino all’ultimo ha cercato, per ragioni diverse, di tenere in piedi la candidatura di Draghi. E che a un certo punto della giornata, ieri, dopo aver letto da parte di Matteo Salvini la frase “nessun veto su Draghi” (ore 12.30), dopo aver ascoltato i primi deputati di Forza Italia spostarsi su Draghi (Mario Giro, ore 13.30: “Dopo Casellati c’è solo Draghi”), dopo aver ascoltato il leader di Coraggio Italia Luigi Brugnaro dire: “Dopo Casellati c’è solo Draghi (ore 14.30) e dopo aver registrato sui taccuini l’incontro tra Draghi e Salvini avvenuto negli uffici del Mise di Giorgetti (ore 18.30), ha iniziato a sperare, prima delle notizie su Elisabetta Belloni, che non fosse più impossibile avere Draghi al Quirinale.
All’interno di questo fronte c’è certamente Enrico Letta che, sfidando numerose correnti del Pd tranne quella guidata da Lorenzo Guerini, ha tentato in tutti i modi di far valere il misero 14 per cento che il Pd ha in Parlamento tenendo unito il partito, governando i gruppi parlamentari, sabotando ogni tentativo di intelligenza con gli avversari di Conte e tentando fino all’ultimo di non cedere a tentazioni capaci di regalare al Pd solo una vittoria effimera.
All’interno di questo fronte c’è – anche se sotto traccia – Giorgia Meloni che, sfidando i numeri esigui del suo partito in Parlamento, ha fatto tutto quello che ha potuto per bruciare ogni candidatura di Matteo Salvini, per portare il leader della Lega a misurarsi con la sua debolezza in Parlamento e per tentare fino all’ultimo di guidare il centrodestra verso una candidatura, quella di Draghi, che Meloni ha sempre auspicato.
All’interno di questo fronte, sempre per restare nel centrodestra, c’è anche l’allegra e spericolata coppia formata da Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, che dall’alto dei loro sessanta parlamentari, mica male, dal primo giorno di consultazioni hanno fatto il possibile, giocando con i veti e le fragilità della leadership salviniana, per tenere la coalizione un po’ più vicina alla stagione Draghi e un po’ più lontana dalla nostalgia del Papeete. All’interno di questo fronte, poi, c’è anche Gianni Letta, che nonostante tutto, negli ultimi giorni, ha riavvicinato Berlusconi e Draghi, prima triangolando tra i due per la telefonata di disgelo di giovedì pomeriggio e poi spingendo per portare Antonio Tajani a Palazzo Chigi in un vertice improvviso convocato con il presidente del Consiglio e infine insistendo con Giorgetti per far incontrare Draghi con Salvini nel pomeriggio di ieri.
All’interno di questo fronte, naturalmente, c’è anche Matteo Renzi, che con il suo triplo gioco ha sempre cercato (a) di non dare una sponda al centrodestra per evitare di far eleggere a Salvini un capo dello stato senza il centrosinistra e (b) di aiutare il Pd di Enrico Letta a non rimanere schiacciato dalle mosse del M5s.
E all’interno di questo fronte, infine, c’è Luigi Di Maio, che sfidando l’antidraghismo di Giuseppe Conte e le nostalgie gialloverdi di un pezzo di M5s ha tentato in tutti i modi di spostare un pezzo del Movimento su Draghi, prima lavorando per sabotare ogni tentativo di intelligenza con il nemico da parte di Conte, poi facendo pesare i propri voti (circa cento sui 166 andati a Mattarella sono voti arrivati dalla corrente di Di Maio) e infine ricordando con un’intensità maggiore rispetto a quella di Conte che lavorare a una maggioranza diversa da quella che sostiene Draghi avrebbe portato niente di meno che a un draghicidio.
Bisogna ringraziare tutti loro, per aver tenuta viva il più a lungo possibile la candidatura di Draghi, e bisogna ringraziare naturalmente anche Giancarlo Giorgetti, che insieme con i governatori leghisti del nord, da Attilio Fontana a Luca Zaia fino a Massimiliano Fedriga, ha fatto tutto ciò che poteva fare per portare Salvini sull’unica mossa spendibile politicamente per la Lega. Una mossa che Salvini si sarebbe potuto intestare anche senza dover dire: noi le abbiamo tentate tutte. Lode a chi ci ha provato.