Francesco Cossiga con gli allora ministri Roberto Calderoli e Umberto Bossi nel 2008 (Ansa) 

L'arte del kingmaker. Storia di un potere di strategia e fantasia che porta all'incoronazione

Francesco Cundari

Dal Cav. a De Mita, da Occhetto a Bettini. Tutti i protagonisti della Seconda Repubblica, chi più chi meno, sono rimasti prigionieri del proprio personaggio

L’uomo che volle farsi re, come si sa, almeno nella finzione letteraria e cinematografica, è finito male. Ma anche l’uomo che volle farsi kingmaker, nella politica italiana, ha incontrato spesso difficoltà non da poco. D’altronde, non sono più i tempi di Rudyard Kipling, e nemmeno quelli di John Huston. Sono i tempi, come ci ha ricordato anche l’ultima opera dello street artist Tvboy in cui Mario Draghi è raffigurato pensosamente assiso su un trono di spade, per l’appunto, del Trono di Spade. Serie televisiva che ha insegnato a tutti come per ogni aspirante kingmaker ci sia almeno uno “sterminatore di re”. E figurarsi quanti se ne possono trovare in parlamento.

  
Consapevoli di questo dato statistico, i più accorti, tanto tra gli aspiranti re quanto tra gli aspiranti kingmaker, da sempre, hanno fatto della dissimulazione un’arte e dell’invisibilità una seconda natura. Se i nomi devono essere tutti “di alto profilo”, infatti, i nominati, i nominabili e anche i nominanti il profilo devono tenerlo invece il più basso possibile, praticamente rasoterra, se vogliono avere qualche speranza di sfuggire alla contraerea che inevitabilmente comincerà a fare fuoco, non appena un candidato provi a spiccare il volo.


C’è un’ampia letteratura secondo cui il vero potere non sarebbe quello dell’eletto, ma quello del grande elettore; non di chi guida l’esercito in prima linea, ma di chi tira le fila dietro le quinte; non di chi sale, ad esempio, al Quirinale, ma di chi gli apre la strada. 

 

Uno instancabile, almeno a livello romano, è stato spesso Goffredo Bettini, almeno da quando nel 1993 s’inventò la candidatura di Rutelli

 
Sicuramente c’è del vero, e non vale solo per il Quirinale. Da un certo punto di vista, può apparire persino ovvio che il potere di chi nomina sia superiore a quello di chi è nominato. Ma è un punto di vista discutibile. Giulio Andreotti, che se ne intendeva, sosteneva che non bisognerebbe mai nominare nessuno, perché chi fa una nomina si crea cento nemici e un ingrato. E in effetti non sono pochi, nella storia della politica italiana, i re che si sono rivoltati contro i propri kingmaker.

 
Il caso più clamoroso è probabilmente quello di Francesco Cossiga, la cui elezione al primo scrutinio, anche con i voti del Partito comunista, fu giustamente considerata come il supremo capolavoro del segretario democristiano Ciriaco De Mita, che Cossiga, da presidente, qualche anno dopo, avrebbe omaggiato del titolo di “bugiardo”, “gradasso” e “boss di provincia”.

 
Un kingmaker instancabile, almeno a livello romano, è stato spesso Goffredo Bettini, almeno da quando nel 1993 s’inventò la candidatura del verde Francesco Rutelli a capo di una coalizione di centrosinistra che a livello nazionale ancora non esisteva. D’altra parte, non tutte le ciambelle vengono col buco, neanche ai pasticceri più consumati come Bettini. Meno fortunato, per esempio, fu con Ignazio Marino. Uno dei rarissimi casi in cui il kingmaker avrebbe preferito che il suo ruolo fosse dimenticato. In una lettera di precisazione a questo giornale, il 16 ottobre 2016, Bettini la mise infatti così, : “Sono innumerevoli i commentatori, i politici e i giornalisti che lo ricordano in continuazione. E poi: non c’è persona da me incontrata anche per caso, che non mi dica, qualche volta con sguardo pietoso: ‘Va bene tutto; ma Marino!’. Dunque tutti sanno del ruolo che ho svolto. E io ho assunto le mie responsabilità. Non ho mai negato nulla. Solo una volta mi sono permesso di dire che non ero solo nella scelta e che non vi è stata alcuna imposizione; in quanto Marino ha stravinto le primarie del centrosinistra e, soprattutto, ha stravinto le elezioni, con un consenso del 63,93 per cento dei romani. Quindi sono sicuramente pazzo, forse è pazzo Marino. Ma, in ogni caso, siamo dei pazzi democratici”.

 

 Uno che invece al momento decisivo, non ha voluto farlo mai – perché ha sempre preferito l’altro ruolo – è Silvio Berlusconi

 
Uno che invece il kingmaker, al momento decisivo, non ha voluto farlo mai – perché ha sempre preferito l’altro ruolo – è Silvio Berlusconi. La lista dei delfini che hanno provato a forzargli la mano, con le buone o con le cattive, è lunga quanto la storia della Seconda Repubblica, e sono finiti tutti spiaggiati. Un caso molto simile al suo è quello di Matteo Renzi: quanto l’idea di cedere il passo ad altri non gli piaccia lo sanno bene coloro che, in un modo o nell’altro, sono stati da lui più o meno provvisoriamente incoronati, da Paolo Gentiloni (che aveva tuttavia una sua ben solida rete, con cui comunque è arrivato a Palazzo Chigi, c’è rimasto fino alla fine della legislatura, per fare poi il presidente del Pd e oggi il commissario europeo), a Marco Minniti, la cui incoronazione renziana dev’essergli sembrata più una minaccia che una promessa, tanto da spingerlo a ritirare la sua candidatura alla guida del Pd praticamente in piena corsa, per poi ritirarsi direttamente dal Pd e dalla politica.   

 
A volte, e forse è anche il motivo per cui Berlusconi non se ne è mai lasciato affascinare, il ruolo del kingmaker è anche una sorta di premio di consolazione, se non proprio una variante appena ingentilita della favola sulla volpe e l’uva. Si fa – o si finge di fare, o si accetta che gli altri fingano di credere che tu faccia – il kingmaker, nessuno si senta offeso, semplicemente quando non si può fare il re. 

 
Ma tra i due ruoli c’è un ampio margine di ambiguità, una corposa zona grigia, e non è sempre facile capire chi faccia cosa. Vedi il caso singolarissimo, e per molti versi speculare a quello del fondatore di Forza Italia, rappresentato da Achille Occhetto.

      

La campagna elettorale dell’Ulivo nel 2001, Massimo D’Alema, Giuliano Amato e Francesco Rutelli (Olycom) 
   
L’esempio dell’ultimo segretario del Pci è forse quello che illustra meglio un problema antico, specialmente a sinistra, che è al tempo stesso un problema di cultura politica e di potere, cui Alessandra Sardoni ha dedicato anni fa un libro (“Il fantasma del leader”, Marsilio), che si apriva proprio con le differenti risposte fornite da Berlusconi e Occhetto, nel corso del primo, celebre faccia a faccia tra i due – presunti? immaginari? potenziali? – candidati premier (non si dovrebbe dire neanche “premier”, lo so, ma ora lasciatemi finire la frase), andato in onda su Canale 5 il 23 marzo 1994. La domanda di Enrico Mentana era la seguente: “Voi, se vincete, vi candidate alla presidenza del Consiglio personalmente, cioè rivendicate il vostro diritto alla candidatura?”. Berlusconi risponde dicendosi convinto che “non siano gli alleati di una coalizione che debbano indicare chi sarà il presidente del Consiglio” e che “saranno gli elettori che con il loro voto daranno le indicazioni più corrette”. La risposta di Occhetto, invece, è questa: “Io ritengo che la cosa più democratica sia a questo punto, dal momento che non è passata una legge che permetta con doppio turno l’indicazione diretta del premier, che il tavolo dei progressisti decida insieme chi è il premier. Io ritengo che in una democrazia moderna il segretario del più grande partito di questo fronte è candidabile, ma io non mi candido. Potrei anche farlo, ma ritengo più opportuno valutare democraticamente al tavolo dei progressisti, dopo le elezioni, con una maggioranza chiara, e non dico che sia dei progressisti…”. 

 

Al ruolo del grande tessitore, detentore a sinistra di una sorta di potere d’incoronazione, D’Alema resterà a lungo affezionatissimo

   
Nonostante queste accattivanti circonlocuzioni, gli elettori, come si sa, daranno la maggioranza a Berlusconi. Dunque non sapremo cosa avrebbe effettivamente deciso il tavolo dei progressisti. Occhetto disse o fece capire in più occasioni di pensare a Carlo Azeglio Ciampi, ma è evidente che le dimensioni dell’eventuale vittoria e la distribuzione dei voti all’interno della coalizione progressista, e anche il risultato del terzo polo centrista, avrebbero inevitabilmente condizionato le successive decisioni. Né si può dimenticare che Occhetto era stato, fino ad appena tre anni prima, il segretario del Partito comunista (di cui aveva guidato il processo di trasformazione in Partito democratico della sinistra, nel 1991). Un marchio destinato a pesare, in tutti i sensi. Tanto è vero che di tutti i leader provenienti da quella tradizione che si sono in qualche modo candidati direttamente a Palazzo Chigi – senza schermarsi dietro i tavoli e le perifrasi di Occhetto – a destinazione non è mai arrivato nessuno. E l’unico di loro, a tutt’oggi, che a Palazzo Chigi c’è arrivato, a conferma della tesi, a “premier” non si è mai candidato. Non alle elezioni, almeno.

 
Sto parlando, ovviamente, di Massimo D’Alema. Tralasciando la complicatissima questione del suo rapporto con Occhetto (di cui sarebbe comunque improprio definirlo il kingmaker), la sua lunghissima carriera da stratega neanche tanto occulto e regista dietro le quinte, ma davanti ai microfoni, comincia con l’incoronazione di Romano Prodi, avvenuta a Roma il 10 marzo 1995. 

 
Siamo alla Sala Umberto, un teatro – ricorda Sardoni – alternativamente utilizzato da Paolo Poli e dal Bagaglino. Qui D’Alema, rivolgendosi a Prodi e scegliendo accuratamente i tempi verbali, avrebbe pronunciato la seguente formula magica: “Lei è una persona seria, non di quelli con l’incarnato incipriato, lei sarà il leader di questo schieramento, lei è il nostro candidato premier e noi le conferiamo la nostra forza”.

 
Avendogliela conferita, era forse da intendersi che in qualunque momento avrebbe anche potuto revocargliela. E’ quello che accadrà, almeno secondo Prodi e i suoi sostenitori, nel 1998, con la crisi del primo governo dell’Ulivo, la caduta del Professore e l’ascesa a Palazzo Chigi di D’Alema, primo e finora unico ex comunista a riuscirci.

  
A Palazzo Chigi, comunque, non rimarrà a lungo (nota per gli aspiranti kingmaker: nessuna ex fidanzata è più vendicativa di un ex presidente detronizzato), ma al ruolo del grande tessitore, detentore a sinistra di una sorta di potere d’incoronazione, resterà invece affezionatissimo, esercitandolo con alterne fortune – sue e dei suoi incoronati – per circa un ventennio. 

   
Arrivato alla guida del governo, con una mossa a sorpresa ma non certo estranea alla tradizione della casa, è lui stesso a indicare come suo successore alla segreteria del partito, che nel frattempo ha ricambiato nome in Democratici di sinistra, Walter Veltroni (un altro cui, verosimilmente, ritiene di poter “conferire” la sua forza). E sarà ancora lui, D’Alema, il grande elettore di Piero Fassino al congresso dei Ds nel 2001 e di Pier Luigi Bersani alle primarie del Pd nel 2009. 

 
Stratega di superiore chiaroveggenza per i suoi adepti, manovratore di supremo cinismo e assoluta inaffidabilità per i suoi nemici, tra cui buona parte della stampa italiana, è stato spesso malevolmente paragonato allo scorpione della famosa favola, che finisce per affogare con la stessa rana che lo doveva portare sull’altra sponda del fiume, semplicemente perché non resiste alla tentazione di pungerla, perché è nella sua natura. Certo è che anche  D’Alema rimarrà prigioniero, se non della sua natura, quanto meno del suo personaggio, e forse all’altra sponda del post-comunismo, nonostante il temporaneo approdo a Palazzo Chigi, anche per questo, non arriverà mai. Per mezza Italia rimarrà sempre una sorta di nemico ideologico (curiosamente, anche e forse soprattutto a sinistra, almeno in certi momenti), indipendentemente dalle sue scelte e dalle sue prese di posizione. Per una ragione estetico-antropologica prima che politica, qualcosa che ha più a che fare con i suoi baffi che con le sue proposte di legge.

 
Forse però la verità è che tutti i protagonisti della Seconda Repubblica, chi più chi meno, sono rimasti prigionieri del proprio personaggio. Anzi, ripensando alle grandi personalità della Prima Repubblica, da Aldo Moro a Giulio Andreotti, capaci di giocare tanto come centravanti quanto come registi dietro le linee, su entrambe le fasce e persino da allenatori, la principale differenza con i loro epigoni appare questa: che quelli erano, per l’appunto, artisti completi, in grado di interpretare al meglio ogni ruolo, senza mai fossilizzarsi in nessuna parte. Nella Seconda, ma ancora di più nella Terza, o comunque vogliamo chiamare questo casino, sembrano invece tutti tremendamente monodimensionali. Improvvisatori dalle mille trovate senza alcuna fantasia, interpreti di un solo ruolo senza nemmeno il talento del caratterista, attori capaci di una sola espressione, con quella fissità un po’ ottusa tipica di chi ha fatto troppi selfie, e vive ormai da anni imprigionato in una dimensione virtuale da cui non sa più come uscire, incapace di distinguere la realtà dal reality.