Altri sette anni bellissimi con Mattarella. Ragioni semi serie per esultare

No, il draghicidio non c'è stato. L'Italia chiude questa folle legislatura avendo ribaltato l'agenda antieuropeista e nel segno della stabilità incarnata dal duo Draghi-Mattarella

I sogni svaniti e quelli realizzati. I leader capaci e quelli improbabili. Donne feticcio e senso del ridicolo. E poi i figli di fronte alla tv, le letture  per capire l’Italia e le nostre ossessioni. Un pazzo girotondo per conversare sul bis di Mattarella (e i suoi 759 voti)

Chiudi gli scatoloni, riapri gli scatoloni. Pensa al trasloco, cambia il trasloco. Riposati, smetti di riposarti. Sergio Mattarella aveva “altri piani”, ha detto, ma poiché deve tornare ad aggiustare i nostri guai, farà come ha già fatto Giorgio Napolitano, e qualcuno rimetterà velocemente i libri e i soprammobili al loro posto. Per quanto riguarda la casa ai Parioli, appena presa in affitto, chissà se c’è una clausola speciale per le caparre dei presidenti della Repubblica uscenti qualora sia provata la causa di forza maggiore. In questo caso è provata, e qualunque anche avido proprietario di immobile comprenderà facilmente che è stato meglio così. Che per fare le istituzioni bisogna saper stare nelle istituzioni. Anche per rivoluzionare le istituzioni, bisogna prima di tutto sapersi comportare da istituzioni.

 

La presidente del Senato che fa scrutinio dei voti che non le piacciono con una mano distratta, mentre con gli occhi e con tutto il resto del corpo sta sul telefono a rispondere a notizie deludentissime con messaggi probabilmente rabbiosi, è uno spettacolo deprimente. Non può non sapere che tutti stanno guardando lei, non può non accettare che è un momento solenne, anche se non per i suoi personali progetti di trasloco.

  

Quando mia figlia di quindici anni prova a farlo sotto la tavola, senza telecamere, senza Parlamento, senza alte cariche, in verità senza neanche una paghetta né ambizioni di scalate dentro casa, il telefono viene sequestrato per la durata della cena con una serie di noiosissime prediche. Che noia dire sempre le stesse cose, pensare sempre le stesse cose, cioè che mi sento molto rassicurata da Sergio Mattarella al Quirinale e Mario Draghi a Palazzo Chigi. Per essere maleducati, casinisti, sudati, con la camicia slacciata, con i pensieri slacciati, per dire “sto lavorando perché ci sia un presidente donna in gamba”, c’è tutto il resto del mondo, ci sono i social. “Se serve”, ha detto Sergio Mattarella. In effetti serve, e ci scusi, però grazie. 
Annalena Benini


Il linguaggio del corpo di un siciliano

Com’è il linguaggio del corpo di un siciliano sincero, il linguaggio di occhi così chiari da sembrare trasparenti sotto la luce senza ombre dei capelli? Com’è il linguaggio del corpo di un democristiano persino un po’ intransigente (democristiano di sinistra, eh: sennò i democristiani di sinistra puntualizzano), che ha trasformato un retaggio di timidezza in un riserbo (istituzionale) diventato una seconda pelle? Come può essere il linguaggio del corpo di Sergio Mattarella se non diafano, capace di trattenere le emozioni ma non di mentire. Il linguaggio del corpo del presiedente della Repubblica richiamato in servizio, negli ultimi mesi, è stato esplicito. Una pazienza sofferta, un sentirsi bene e con la voglia di sorridere solo con i cittadini normali. E l’ultimo discordo di fine anno tenuto in piedi (si sarà ricordato l’Esodo, “con i fianchi cinti e i sandali ai piedi?”) nella Palazzina del Fuga (omen) nei giardini del Quirinale, con le palme a far da argine muto all’avanzare della linea dei somari. Un discorso breve e Sergio Mattarella insolitamente radioso. Una cartolina agli italiani: tanti saluti. Quasi gli scappava da ridere. Il linguaggio del corpo. Diceva anche più delle notizie lasciate correre sul trasloco. “Mattarella è arcicontento / del suo nuovo appartamento” avrebbe scritto il Corriere dei Piccoli. E aveva fior di motivi costituzionali e istituzionali a sorreggere un linguaggio del corpo così intimo, così trasparente. 
Inizierà ora un altro mandato, con la responsabilità che conosciamo. Ma ovviamente non è soltanto una penitenza aggiuntiva quella cui si sottopone. C’è un modo politico, dietro. Il suo.  Quando nel 2012 Giorgio Napolitano pronunciò l’ultimo messaggio di fine anno del suo settennato, non trascurò di fare un discorso politico. “Non verranno da me giudizi e orientamenti di parte, e neppure programmi per il governo”, disse, ma poi mise in fila: la questione sociale, il debito da ridurre, le cose urgenti da fare. La postura del corpo di un presiedente alla scrivania e in chief, anche se fu “quasi costretto ad accettare la candidatura a una rielezione”. E quando accettò la rielezione, il 22 aprile del 2013, tenne un discorso programmatico e molto duro contro i partiti incapaci di persino di scegliere il suo successore. Espose le condizioni politiche del suo restare.

  

Non si può dire che riuscì nel suo intento di far rigare dritta la scolaresca rissosa e (già in quella legislatura) inadeguata. Ma quello era il senso. Il secondo mandato di Sergio Mattarella inizia senza segnali antecedenti di un indirizzo. Avrà certo un indirizzo, ma dovremo aspettare di conoscerlo dalle sue parole, dal suo linguaggio del corpo. Sarà un messaggio legato a doppio filo all’inquilino dell’altro Palazzo, ovviamente.  Il linguaggio del corpo di Mattarella, in quest’ultimo anno, ha detto che non ci sono alternative alla serietà di ognuno e alla serietà del governo e del Parlamento, in mezzo alla tempesta. Era contento di mandare una cartolina, gli ridevano gli occhi chiari.
Manderà il medesimo messaggio: prima l’Istituzione. Prima il paese.
Maurizio Crippa


Le contorsioni per sconfiggere gli istinti anticasta

Questa legislatura, figlia del terremoto politico del 4 marzo 2018, è cominciata con la nascita di un governo formato da due partiti che parlavano apertamente di uscita dall’euro (la Lega) e che proponevano l’impeachment del presidente della Repubblica (il M5s) per aver impedito la nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona, l’uomo che del Piano B per l’Eurexit. Finisce con gli stessi partiti che appoggiano un governo presieduto dal presidente della Bce, Mario Draghi, e che rieleggono Sergio Mattarella al Quirinale. L’ulteriore paradosso è che, nella legislatura del trionfo del partito anticasta, a entrambe queste soluzioni si è arrivati grazie allo spirito di auto conservazione dei parlamentari che, per evitare le elezioni anticipate, hanno garantito quella stabilità istituzionale destabilizzata dall’insipienza dei loro leader di partito. La crisi delle forze politiche è inoltre resa evidente dal paradosso che lo scorso anno Mattarella ha chiesto a Draghi di accettare l’incarico di premier per far fronte all’emergenza politico-istituzionale e, dopo un anno, è accaduto l’inverno: Draghi ha chiamato Mattarella chiedendogli di accettare l’incarico per sbloccare la crisi politico-istituzionale. L’Italia chiude quindi questa folle legislatura avendo ribaltato l’agenda antieuropeista e nel segno della stabilità incarnata dal duo Draghi-Mattarella. È evidente che, in uno snodo cruciale che rischiava di far saltare gli equilibri che tengono in piedi il governo, sia una soluzione accolta positivamente dai mercati, dall’Europa e dalle cancellerie internazionali. Ma se apparentemente tutto resta com’è, in realtà il paese esce da queste elezioni del Presidente della Repubblica molto più fragile, con le leadership dei partiti delegittimate per la loro incapacità di trovare soluzioni politiche e il governo Draghi a sua volta indebolito dalle fibrillazioni nelle forze politiche che lo sostengono. Questo equilibrio precario durerà verosimilmente per un altro anno, fino alle prossime elezioni. Poteva andare molto peggio. Ma comunque non appare essere la guida salda necessaria a un paese che deve affrontare sfide enormi come l’emergenza sanitaria, l’attuazione del Pnrr, lo shock energetico, lo spettro dell’inflazione e del rialzo dei tassi che minacciano la crescita economica e, di conseguenza, la sostenibilità del debito pubblico.
Luciano Capone

  

     
Ci vorrebbe una donna? Senso del ridicolo zero  

Non vedete i film giusti. Le manfrine di questi giorni somigliavano al finale di “Batman vs Superman” (non che si vedessero tanti superuomini in giro, il mezzocalzettismo fa anche più danni). Riassumiamo: Batman e Superman lottano per la supremazia. Si fanno i dispetti, distruggono tutto quel che trovano con la scusa di salvare l’umanità, e soprattutto se lo misurano (Freud lo direbbe in linguaggio più forbito, ma stava a Vienna più di un secolo fa, e sdraiava sul lettino altre forme di isteria). Arriva Wonder Woman, bella come il sole e in calzoncini, sgomina la minaccia, e i due manco la guardano, di ringraziare non se ne parla.
     

Non lo sentite il tono con cui dicono “ci vorrebbe una donna”? E’ stesso tono che si usa per dire “servirebbe un cacciavite, dammi una bacinella d’acqua che sta piovendo dal soffitto, porta qui uno scatolone per mettere in ordine i giocattoli”. Qualcosa da avere a portata di mano quando serve, e da riporre quando l’emergenza è passata (l’emergenza stavolta è passata prestissimo, però tutti si sono appuntati sul petto la medaglietta: “io per primo volevo una donna”). Qualcosa che esiste soltanto come categoria, sono così poco convinti che non riescono neanche a trovare le parole per dirlo: “un’eccellenza femminile” sfigura perfino nel linguaggio di un azzeccagarbugli che ha imparato l’italiano sui codici e i codicilli.
   

Senso del ridicolo, zero. E’ ormai chiaro anche ai distratti che “Ci vuole una donna” è l’arma segreta per liberarsi dai rivali, o dai candidati dei rivali, alla Presidenza della Repubblica come a innumerevoli altre cariche di minore prestigio ma uguale contenzioso. Non fanno sul serio, mai. Da un bel po’ hanno anche smesso di fingere, a meno che non siano proprio costretti dalle circostanze. La frase vale come messaggio in codice, come duello con la pistola caricata a salve, come esibizione da non calcolarsi nel punteggio finale, come giro d’onore che chiama l’applauso. La prossima volta, facciamo che una donna prima la eleggete, e dopo – magari – ve ne vantate.
Mariarosa Mancuso

   
Il prezzo che pagherà Salvini 

Chi ne pagherà più care le conseguenze, con il Mattarella bis, sarà Matteo Salvini. La tattica che ha adottato nella partita presidenziale non solo dimostra il fallimento di un’impostazione autoreferenziale, ma ha scassato in modo serio quella coalizione di centrodestra che voleva presentare come imprescindibile. Non ha voluto tener conto dei vincoli esterni, che in un sistema economico e politico interconnessi non sono ingerenze, ha rifiutato l’ipotesi più naturale, quella di promuovere Mario Draghi al Quirinale, il che avrebbe rappresentato un parafulmine europeo anche in caso di vittoria elettorale di una coalizione con forti elementi di sovranismo isolazionista. Eppure Giancarlo Giorgetti lo aveva avvertito: la collocazione europea con forze euroscettiche non porta da nessuna parte. Salvini ha voluto comportarsi da leader di uno schieramento, seguendo a zig zag una volta gli orientamenti dei moderati, una volta quello di Giorgia Meloni, finendo con lo scontentare tutti. Alla fine sembra costretto a aderire a quella che era fin dall’inizio la scelta di ingessare la situazione preferita da Enrico Letta, che ha fatto fallire tutte le alternative finché una cosiddetta rivolta parlamentare “dal basso” ha rimesso al centro di tutte le aspettative il presidente Mattarella. Impazienza e arroganza impotente in politica si pagano: la forza contrattuale di Salvini con Draghi è ridotta a zero, le sue intemerate sul rimpasto saranno cancellate dalle condizioni di continuità che Mattarella imporrà, sempre che gli bastino, come condizione per accettare la seconda elezione.

 

Il suo ruolo di leader di coalizione non esiste più e forse anche quello di “capitano” della Lega traballa. E’ forse un bene che l’incapacità politica di Salvini sia emersa così chiaramente prima della campagna elettorale. Questo darebbe il tempo al centrodestra, se vuole esistere ancora, di costruire una proposta non più basata sulla moltiplicazione dei personalismi. Sempre che ne sia capace.
Sergio Soave


Perché non sarà il bis di Napolitano 

Il Mattarella bis non è il replay del Napolitano bis, le sue conseguenze politiche saranno ben più profonde. Nessuna sindrome del gattopardo. L’idea che tutto resti come prima perché Mattarella rimarrà ancora al Quirinale e Mario Draghi a Palazzo Chigi è del tutto infondata. Certo si può dire che oggi come allora il sistema politico non è stato in grado di assicurare un fisiologico ricambio, ma l’intero equilibrio è profondamente diverso, a cominciare dalla frantumazione di tutti i partiti. Una nota positiva è che il parlamento, cominciando a votare in modo massiccio per Mattarella, ha suonato la sveglia. Non sappiamo se si tratta di un moto spontaneo, per dire basta ci siamo stancati o se c’è stata una regia. Vedremo, in ogni caso è anch’esso un segno che i partiti si sono sfarinati. Il Mattarella bis, insomma, porta con sé un Draghi bis e apre la strada a un rimescolamento politico che di qui alle prossime elezioni si presenta pieno di incognite. Vedremo cosa accadrà dopo la mossa di Giancarlo Giorgetti, ma anche se l’esecutivo restasse in sostanza lo stesso, almeno per il momento, avrebbe bisogno di una vera e propria ripartenza, più di un tagliando, molto di più. Mentre da oltre un mese il teatro politico è dominato dal gran gioco del Quirinale, lo scenario è cambiato profondamente. Sono cambiate le quinte internazionali con la minaccia di guerra guerreggiata nel cuore dell’Europa. E’ cambiata la congiuntura economica, perché la fine della moneta facile, anche se sarà gestita in modo cauto e controllato, ha un impatto molto pesante sull’Italia indebitata come non mai, piena di “debito cattivo” che spiazza quello “buono”; senza trascurare le conseguenze della inflazione da costi sui redditi e sulla produzione. E’ cambiato il quadro sociale, perché stiamo facendo i conti con le lacerazioni provocate dalle nuove ondate della pandemia: c’è ancora bisogno di aiuti, sostegni, di assistenza, proprio mentre appaiono più stretti i margini di manovra del bilancio pubblico. Il Pnrr non è stato ancora “messo a terra” come si dice con espressione di moda ed emergono chiaramente i lacci e laccioli di una pubblica amministrazione inadeguata, di un divario digitale e tecnologico difficile da colmare, mentre quello territoriale si è approfondito ancora di più. A tutto cò va aggiunta una frattura culturale la cui manifestazione più evidente è nella patologia intellettuale espressa dai nuovi negazionisti, tutti coloro che non respingono solo il vaccino, ma il principio che la convivenza civile in una società aperta e democratica si basa sulla ragione, sull’onere della prova, sulla realtà, sulla verifica dei fatti, sulla ricerca del bene attraverso il male minore. Il totalitarismo non s’annida nella tecnica, ma, come ha scritto Isaiah Berlin, nell’idea che la libertà sia non soltanto realizzazione dell’individuo, bensì chiusura tribalistica rispetto agli altri: un filo rosso, infatti, congiunge “l’auto-affermazione romantica, il nazionalismo, il culto del capo e dell’eroe, e alla fine il fascismo e il brutale irrazionalismo”. Nessun governo può naturalmente lenire tutte queste ferite, tanto meno in poco tempo. Tuttavia i due presidenti, il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, dovranno affrontare molto presto le conseguenze dei vecchi problemi irrisolti e le ricadute dei nuovi problemi che già si sono presentati con prepotenza davanti alla politica e alla società italiana.
Stefano Cingolani

  

Dopo il first best c’è lui. Buone notizie sul futuro

Adesso il peggio sarebbe quello di dare al secondo mandato a Mattarella un significato negativo, di remedium peccatorum degli altri. Bisogna invece coglierne il significato positivo, di unanime approvazione di quello che, del tormentato settennato  che gli è toccato in sorte, è stata la sua scelta più significativa: quella di Draghi a capo del governo. A Draghi è riuscito di non finire nel tritacarne in cui la politica ha sacrificato i suoi beniamini. Egli ne esce quindi doppiamente rafforzato: implicitamente dal plebiscito per il suo dante causa, ed esplicitamente dalla motivazione (pelosa) adottata da chi ne ha ostacolato la nomina, quella della ineludibile, preminente necessità che continuasse a fare il suo lavoro a Palazzo Chigi. Ancor più dopo quel che è successo, la garanzia offerta dal suo riconosciuto prestigio è diventata imprescindibile: aggiungi la batosta che han preso “i politici” , ed è chiaro che gli sarà più facile imporre una politica di fermo controllo la spesa pubblica e di lotta contro le resistenze degli interessi corporativi organizzati. Dovrà mettere in atto le riforme (io spero che metta al primo posto quella della scuola, perché non sia più quell’istituzione che rifiuta sia di valutare sia di essere valutata); riforme indispensabili perché quelli contratti con il Pnrr siano debiti buoni e non cattivi, per usare le parole dello stesso Draghi. Ha tempo fino al 2023, perché allora si voterà. Che parlamento uscirà dalle urne? Difficile che dalla attuale frammentazione dei partiti esca una maggioranza coesa, difficile che dalla sconfitta dei generali esca qualche soldato col bastone da maresciallo: probabile che la situazione sia non tanto diversa dall’attuale. E’ quindi possibile che si verifichino ancora le circostanze perché Mattarella debba essere lui a dover risolvere lui il problema, e chieda a Draghi di governare un’altra volta, che potrebbe anche durare cinque anni. In tal caso non darei per scontato che Draghi accetti. E allora? La soluzione c’è, qualcuno l’aveva addirittura indicata come il “first best”. Ma non voglio essere io a scriverla in italiano. Non oggi.

Franco Debenedetti

  
Una Garganega frizzante. Per uno scampato pericolo

Io dovrei concentrarmi sui vini rifermentati in bottiglia e sugli eccellenti pittori, lo so bene. Perché oggi citare San Paolo è pericoloso, c’è il caso che ti trascinino in tribunale (del processo alla finlandese Päivi Räsänen, colpevole di aver twittato Romani 1,24-27, ha scritto qui Giulio Meotti). Che la Bibbia sia qualcosa di sedizioso, sgradevole, intollerabile, lo sa chiunque la legga e non si limiti al sentito dire. La Sacra Scrittura è spaventosamente divisiva, per usare un aggettivo balordo che va per la maggiore. Se fosse una statua la tirerebbero giù dal piedistallo e presto, lo sento, cominceranno a tirarla giù dagli scaffali. Pertanto, dovendomi esprimere sulla questione Quirinale non citerò l’apostolo delle genti per esteso, sebbene spiegherebbe la mia posizione in un battibaleno. Vorrei limitarmi a scrivere “Prima lettera a Timoteo 2,11-12” e poi dire come disse Gesù Cristo: “Chi può capire capisca”. Ma io non sono Gesù Cristo, sono un povero cristiano sbandato come tutti e devo espormi. Io sul colle più alto preferivo e preferirò ancora Pier Ferdinando Casini, per un miscuglio di motivi privati e pubblici, alcuni indicibili e altri invece detti (sempre su queste pagine), comunque tutti sentimentali. Sento qualcuno obiettare: la politica non è sentimento, è ragione. Sarei d’accordo se nella politica presente al posto della ragione non ci fosse il machiavellismo, peraltro un machiavellismo piuttosto fallimentare, e allora mi tengo il mio sentimentalismo, grazie. Se Casini proprio non è possibile mi farò piacere un Mattarella 2 e stavolta non per motivi sentimentali visto che non sono di Palermo, non abbiamo amici comuni, non passo mai davanti al suo vecchio liceo, non siamo devoti della stessa Madonna, eccetera. Perché Mattarella è un uomo. Quando sembrò che stessero per eleggere una presidentessa aprii subito una bottiglia di rifermentato: non per festeggiare, chiaro. “Tu bevi per scappare dalla realtà!” disse una donna a Bukowski. “Naturalmente, cara” rispose lo scrittore. Io certamente bevo molto meglio di Bukowski, e forse anche un po’ meno, ma le motivazioni sono simili: fuggire dalla realtà dell’estinzione del maschio. Non intendo assistere alla rotta del mio sesso. “La società contemporanea ha accolto un modello di uguaglianza tra i sessi che non conosce precedenti nella storia, senza peraltro comprendere la reale portata delle conseguenze” ha scritto Harvey Mansfield in “Virilità”. Io la comprendo benissimo la reale portata però ve la spiego un’altra volta, adesso vado a stappare una Garganega frizzante. Per lo scampato pericolo.
Camillo Langone

 

Un ircocervo, una chimera, un cimberuccio

La vita come un romanzo russo, la politica italiana come una favola di Krylov. “Il cigno, il gambero e il luccio”, dovendone citare una. Racconta più o meno così: un giorno un cigno, un gambero e un luccio decisero di spostare insieme un carretto carico di un grosso peso. Tutti si impegnarono al massimo. Grandi sforzi e alti strepiti, ma il cigno tirava in alto, il gambero tirava indietro e il luccio tirava verso l’acqua. Risultato? Il carretto restò dov’era. Ora, l’ispirazione di ciascuno decida a chi, tra gli attori visti in questi giorni all’opera, spetti di indossare le squame del luccio, le chele del gambero, le piume del cigno, ma la sensazione è che, in realtà, sia balzato alla ribalta un vero, grande fuoriclasse in grado di incarnare contemporaneamente tutti e tre, una creatura inverosimile e realissima, un ircocervo, una chimera, un cimberuccio, sì, un cimberuccio invischiato nel mortale viluppo di se stesso, uno capace di irretirsi con vigore, legarsi da solo e prendersi pure a schiaffi, salvo, subito dopo, ignorando o fingendo di ignorare di essere stato la ragione dell’inamovibilità del carretto (non l’unica, ma una delle più vistose, peraltro a seguito di baldanzosa autocandidatura), interpretare quello che ammonisce tutti gli altri a fare presto, a muoversi (?), a lavorare. Dunque siamo un passo, o due, o tre, oltre Krylov, oltre l’Ubu, oltre l’Oscar. Quanto agli altri animali, lì a osservare umarellicamente il nonfare e disfare, poco da dire, se non che l’inamovibilità non vedevano l’ora di prenderla alla lettera e darle corso concreto, vittime in fondo del medesimo chimerismo, cimberucci anch’essi, cimberucci di comodo, per pigrizia e conseguenza, per mancanza di slancio e inerte sopravvivenza, cascati nel revival che in fondo, per paradosso – e giusto per esser chiari – porterà alla scelta senza dubbio migliore, ma pur sempre cimberucci, cimberucci in tutto perché incapaci di qualcosa, lì a guardare il carretto, evviva tutti, evviva il carretto.
Matteo Archetti 

  

  

Il Bis di Sergio ci fa sentire finalmente giovani

Con Sergio Mattarella eletto presidente delle Repubblica, si azzerano gli ultimi sette anni e si torna al 2015. A maggio si terrà nuovamente l’Expo a Milano (vabbè, l’Eurovision a Torino più o meno è la stessa cosa...), la Juventus vince il campionato, occhio soltanto che fra cinque anni arriva il Covid. Inoltre è un bel risparmio: non devi cambiare la foto del Presidente della Repubblica negli uffici pubblici, né reimpostare il riconoscimento facciale sullo smartphone aziendale del Quirinale. In realtà, qualche onere c’è: toccherà destinare buona parte del Pnrr per pagare la caparra già versata da Mattarella per la casa a Roma, e per richiamare in servizio la ditta dei traslocatori che avevano portato via tutto, per dirgli di riportare tutto indietro. Insomma non solo gioie, ma anche dolori: comprensibilmente Mattarella sarà nervosetto, più che eletto a un’alta carica dello stato per la seconda volta pare condannato ai lavori forzati. Ma noi cittadini siamo contenti; personalmente avrei preferito Draghi al Quirinale e Mattarella a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio, ma vabbè, teniamo tutto uguale e arrivederci. Certo, ora però che s’inventa Mattarella al prossimo discorso di fine anno? Quest’anno aveva salutato tutti, detto “funito”, l’aveva recitato in piedi apposta come commiato. Vorrà dire che farà un bis: un medley dei sette discorsi precedenti. Oppure richieste dal pubblico: dite a Mattarella che volete che faccia e lui ve lo fa. O meglio: ditelo a Draghi. Parla solo con lui. Beato Mattarella – ma anche un po’ noi, che caschiamo sempre in piedi.
Saverio Raimondo

  
Se la politica può essere anche questa ce la teniamo

Quando uno ha fama di salvatore delle patrie, di trovatore di soluzioni, di risolutore di debiti, di medico dei disastri. Quando uno ha fama di gentiluomo, di alto sentire, di incoraggiatore di popoli sbinariati e paesi scassati. Quando uno poi è “spirito pratico, m’insegnò a preferire le cose alle parole” come dice Adriano nelle memorie del maestro Leotichide. Quando uno inizia a levare la polvere dal pastrano, a trattare con amore e riaggiusti uno stato perduto tra bassi impicci e di vari dolori ostello che ancora spera di essere un poco meglio di quello che se ne dice. Abbiamo ben da scusarci per questo ennesimo incarico, per questo fallimento del decidere, presidente Mattarella, ma non è tutta colpa nostra. Se la politica può essere anche questa – ci siamo detti quando eravamo quasi quattordici milioni davanti alla televisione a Capodanno – ce la teniamo. E lo sapevano tutti, perfino i più tristi occupatori di quegli scranni, che non sarebbe uscito nessun nome con mezza possibilità di farcela. E quindi s’è tirato un ambo di numeri a tombola, senza convinzione, prima di citofonare di nuovo. Implorare troppo presto pare sempre brutto. L'errore politico – se posso permettermi – è stato fare il miracolo, ridarci fiducia nelle istituzioni. Specialmente ai giovani e a qualche semigiovane. Pare che ora dovrà tenersi il posto e il nostro tremendo ottimismo.
Ester Viola

Di più su questi argomenti: