Da Napolitano a Mattarella: storia del "bis" che si ripete
I tatticismi in Parlamento, gli schieramenti, le candidature improbabili. E infine, tutti col cappello in mano al Quirinale. Analogie e differenze, a otto anni di distanza
È un bis del bis. Un déjà-vu che si spera non diventi un topos da elezione quirinalizia. Ormai, però, è già quasi consuetudine costituzionale. Sicuramente prassi di una politica che non trova soluzioni. Sergio Mattarella come Giorgio Napolitano. Bis-presidenti a otto anni di distanza. All'epoca, era il 2013, le somme le tirava Silvio Berlusconi, riadattando per l'occasione uno slogan dedicato a sè. “Meno male che Giorgio c'è”. Era, come oggi, tutto un “Grazie presidente”. Dopo cinque voti andati a vuoto, giorni ad alta tensione con nomi bruciati e convergenze mancate, si tornò dal presidente Napolitano. “Fai un sacrificio”.
Anche allora era cominciata così, con problemi incrociati tra governo e Quirinale: il Parlamento appena eletto senza una maggioranza (il Pd non aveva portato a termine l’operazione “Lo smacchiamo”, nel senso del "Caimano" Silvio) non riusciva ancora a esprimere un nuovo governo che prendesse il posto dell’esecutivo di emergenza di Mario Monti. In tanti, dal Pd, alla Lega, dal PdL a Sel iniziavano a pensare che confermare al Colle Giorgio Napolitano potesse essere un'ottima idea. Anche allora, come oggi d'altronde, mancava però una cosa fondamentale: la disponibilità del diretto interessato. Tuttavia anche otto anni fa, si finì come ieri mattina: con i partiti in enorme affanno, incapaci di trovare una una quadra, costretti a chiedere, quasi all'unanimità, al presidente un sacrificio per il bis.
Allora, l'aspirante kingmaker non era Matteo Salvini, ma Pierluigi Bersani. Il segretario del Pd aveva da poco “non vinto” le elezioni di pochi mesi prima e poteva contare su una pattuglia parlamentare di 423 grandi elettori, molti di più dei 212 deputati leghisti, ma qualcosa in meno dei 452 della coalizione di centrodestra di questi giorni. Ma non finì bene. Al terzo scrutinio quando servivano ancora i 2/3 dei voti per riuscire nell’impresa, Bersani strinse un accordo con Berlusconi per l’ex sindacalista Franco Marini. Ma si sfilarono Sel e i parlamentari dem vicini a Matteo Renzi che scelsero Sergio Chiamparino. Un record: Marini prese 525 voti, tanti da essere eletti con scioltezza dal quarto scrutinio, ma troppo pochi per il terzo. Ciononostante al quarto, di decise di cambiare strategia, strappando, tentando di andare da soli, senza il centrodestra. Romano Prodi fu richiamato dalla Cina, ma finì con i famigerati 101. Le dimissioni di Bersani e della presidente del Pd Rosy Bindi. Peggio della ridicola operazione Casellati di venerdì.
Così adesso si è finiti con i capigruppo con il cappello in mano al Quirinale a chiedere un sacrificio a Mattarella, come allora si finì da Napolitano. Ma delle differenze ci sono. Nel 2013 furono i leader - Berlusconi, Bersani e Monti - a salire al Colle per primi per chiedere a Napolitano. Questa volta invece, come faceva notare questa mattina Enrico Letta, è stata “la saggezza del Parlamento” a suggerire il bis, con tanti voti al presidente fin dal primo scrutinio, fino ai 336 di ieri. Per questo al Quirinale sono andati i capigruppo di maggioranza. "C'era l'idea che andassero da Mattarella i leader politici ma io ho pensato che, in una fase nella quale le sgrammaticature costituzionali sono già parecchie, la scelta migliore sia che vadano i capigruppo", ha spiegato Letta.
Alla fine, Napolitano fu votato da una maggioranza amplissima (rimasero fuori FdI, Sel e 5 stelle) 738 voti, Mattarella con numeri ancora più larghi: 759.
Il primo discorso di Napolitano alle Camere fu uno schizzo surrealista. I parlamentari che applaudono fragorosamente il presidente emerito che li bastona ricordando le loro “sordità”. Farà lo stesso anche il presidente Mattarella? Possibile. Intanto le prime parole pronunciate dopo il voto della Camera sono state poche, calibrate, ma chiare: “Emergenza, senso di responsabilità e rispetto del parlamento devono prevalere su altre considerazioni e prospettive personali differenti”. In quelle “considerazioni” si annidano molti dubbi (Mattarella è stato presidente della Corte Costituzionale e la legittimità del bis è da anni tema di dibattito tra costituzionalisti).
Su Twitter però è rispuntata un'intervista del 1998 che Mattarella, all'epoca capogruppo dei popolari alla Camera dei Deputati, rilasciò a Francesco Verderami. Per il post Scalfaro, chiede il giornalista, “lei pensa a una personalità simile a Scalfaro?”. “No, io penso a Scalfaro”, la caustica risposta di Mattarella che ovviamente diventa titolo. “Perché non rieleggiamo Scalfaro?”. La storia andò diversamente. L'intesa, amplissima, anche con il Polo, arrivò al primo scrutinio. Fu eletto Carlo Azelio Ciampi con 707 voti. Ma ancor più interessante è l'argomento che Mattarella usava nell'intervista per spingere la rielezione. “Se l'intesa ripartisse dall'elezione diretta del presidente della Repubblica...”. Vent'anni più tardi, e dopo un nuovo fallimento della politica, il presidenzialismo, almeno per due giorni, è tornato di moda. Evocato da Renzi a Meloni fino a Zaia contro il pantano parlamentare. Scenari lontani però (semmai si parla di legge proporzionale). Più interessante sarà capire che cosa sarà di questo bis. Nel 2015 Napolitano, dopo due anni di secondo mandato, si dimise. Adesso che farà il presidente? Rimarrà sette anni? Andrà via prima della scadenza del mandato come il suo predecessore?
La rielezione si farà prassi? In molti nel Pd e non solo dicono l’ovvio e cioè che sarà lui, dopo essere stato tirato dalla loro insipienza al secondo mandato, a decidere del suo destino. “Rimarrà per sette anni”, è convinto il governatore della Toscana Eugenio Giani. Qualcosa in più comunque si capirà settimana prossima quando il presidente si recherà alle Camere per il discorso di insediamento. Vale la pena ricordare una cosa: prima delle elezioni, quando ancora qualcuno nel Pd provava a convincerlo alla rielezione, al capo dello stato era stato prospettato questo scenario. “Fai il bis e facciamo che sia l’ultima volta”. I senatori dem Dario Parrini, Luigi Zanda e Gianclaudio Bressa, avevano depositato un disegno di legge costituzionale per vietare espressamente la rieleggibilità del presidente della Repubblica.