Salvini, i dubbi su Draghi, e il progetto di sfasciare Forza Italia. "Con noi verrà solo chi non tifa per il Pd"
Giorgetti: "Siamo riusciti a far vincere il Pd, che aveva solo il 14 per cento". Renzi: "Salvini? Ho ridefinito la lista degli incapaci. Ora al primo posto c'è lui, al secondo Conte"
Giorgetti gli dice di scegliere: "Se restiamo al governo, è fino al 2023. Sennò usciamo subito". Lui per ora rifiuta l'idea della rottura, ma sa che febbraio sarà uno stress test: balneari, Mes, catasto. La visita al Cav. per ricucire dopo lo strappo quirinalizio: "Il no a Casini? Me lo ha chiesto Draghi". Oggi il Consiglio federale a Via Bellerio per discutere della "federazione": non ci sarà alcun processo
Proverà a spiegare cos’è successo: e dirà, cioè, come mai si è arrivati al paradosso fotografato da Giancarlo Giorgetti per cui “siamo riusciti a fare in modo che il Pd, col 14 per cento dei grandi elettori, eleggesse un suo presidente della Repubblica”. Ma dovrà anche chiarire il percorso che verrà, dare sostanza a quella suggestione un po’ fumosa che è, al momento, la “federazione dei repubblicani”. Ha scelto Milano, Matteo Salvini. Lì riunisce lì nella storica sede di Via Bellerio, i vertici del suo partito: come a voler omaggiare le radici del partito che fu, per confortarli su quello che forse sarà. Non si celebrerà alcun processo, al Consiglio federale di oggi: lo sa anche Salvini che i mugugni di molti colonnelli, lo sconcerto dei governatori per la gestione fallimentare della partita quirinalizia, non si tradurranno in una messa in stato d’accusa. Di certo una direzione è segnata, per ora: dal governo non si esce. Giorgetti gli ha suggerito di scegliere in fretta: se rottura deve essere, che si assumano subito le decisioni irrevocabili. “Se invece restiamo, è per arrivare a fine legislatura”, ha detto al segretario il ministro dello Sviluppo, che proprio per porre sul tavolo la discussione s’è esibito fin dal pomeriggio di sabato in quella manfrina di finti annunci e mezze smentite sulle sue dimissioni.
Restare, allora: questa pare l’intenzione di Salvini, anche per sabotare la virata proporzionale. Però restare non sarà indolore: e anzi febbraio rappresenterà, per il Carroccio, una specie di stress test. Perché nell’agenda di Mario Draghi nelle prossime settimane ci sono le concessioni balneari e la ratifica del Mes. A giorni, il Mef invierà a Montecitorio i suoi pareri agli emendamenti sulla riforma del catasto, su cui Draghi non desiste. Ce n’è abbastanza per mettere alla prova la consistenza dello zelo governista di Salvini. E la durezza dell’intervento di Giorgetti contro Roberto Speranza, nel Cdm di ieri, per contestare la proroga della chiusura delle discoteche (“Senza neanche un confronto con le categorie: ma dai!”), sta lì a testimoniare di una sofferenza reale, nella Lega.
E forse, se non condotte a dovere, le manovre che dovrebbero portare alla “federazione” vagheggiata nelle scorse ore da Salvini, rischiano di farle perfino aumentare, quelle fibrillazioni. Lo si è visto già ieri, quando lo staff del segretario ha condiviso sulle chat dei parlamentari il manifesto consegnato al Giornale, e in mezzo ai pollici alzati d’ordinanza c’è stato chi, come il deputato Ugo Parolo, una vita nella Lega, ha storto il naso: “È una proposta politicamente delicata da condividere con tutta la militanza e suggerirei di sottoporla al Congresso della Lega prima di renderla operativa”. Salvini ha in mente tempi più rapidi. Sa che deve guardarsi le spalle da quella Giorgia Meloni che ha lanciato, a sua volta, l’opa sul nuovo centrodestra. e minaccia sfracelli: “Se andremo insieme alle prossime elezioni? Non lo so”, dice. Punta allora ad annettere Forza Italia, Salvini. Ma non a tutta. Perché con quella parte di dirigenti azzurri che nella cerchia del Capitano vengono definiti “i Forza Pd”, quelli che già sognano il nuovo centro, “non abbiamo nulla da spartire”. E del resto la galassia moderata cerca nuove orbite, lontane dal centro di gravità sovranista. Perfino Matteo Renzi, che in vista dell’avventura per il Colle aveva stretto i legami col suo omonimo, alla fine della settimana s’è ricreduto: “Ho aggiornato la mia classifica dei più incapaci: e Salvini è riuscito a scalzare Conte dal primo posto”.
L’idea del leader della Lega, un po’ obbligata a questo punto, è allora quella di avviare un percorso condiviso, che sia un contenitore nuovo e non solo un cartello elettorale, con la frazione di FI da sempre più incline a un avvicinamento alla Lega. E però anche qui le scorie quirinalizie andranno smaltite. Perché la scombiccherata candidatura di Elisabetta Belloni ha indispettito pure quei dirigenti forzisti che non avevano mai assecondato la demonizzazione di Salvini. E invece venerdì sera Licia Ronzulli è stata proprio lei, intervenendo in prima persona, a coordinarsi con Renzi e con Lorenzo Guerini per disinnescare l’imboscata gialloverde. E lo stesso Antonio Tajani, quando ha incrociato sulle scale di Montecitorio Salvini, in quelle ore, ha usato i toni di chi non ammette repliche: “D’ora in poi, ognuno per la sua strada”. Senza contare che convincere il Cav., dopo che proprio il veto del capo leghista ha stoppato sabato la candidatura di Pier Ferdinando Casini benedetta da Arcore, non sarà facile. Ha provato a farlo già ieri, Salvini, recandosi a Villa San Martino dopo le dimissioni di Berlusconi dal San Raffaele. E chissà se anche a lui ha riferito quel che ha rivelato ai suoi confidenti: che la sua contrarietà all’ex presidente della Camera, così come la proposta di lanciare in extremis sul tavolo delle negoziazioni i profili di Marta Cartabia e di Maria Cristina Messa, sarebbero state mosse fatte per esaudire le richieste fattegli da Draghi.