Delle 5 stelle ne resterà una: Di Maio, Bel Ami del grillismo
La trasformazione del M5s, le convulsioni e l’ascesa 2.0 del ministero. Ritratto di un antipatizzante, con previsione
La trasformazione del Movimento cinque stelle da movimento visionario a partito neo-democristiano è uno dei fenomeni più suggestivi della recente storia politica europea. Nulla rimane oggi della mitologia politica iniziale di Grillo – il disprezzo per le istituzioni rappresentative, l’inclinazione ai vaffa, l’ecologia facilona, le piste ciclabili, il delirio virtuale e soprattutto la democrazia dei click. Di Casaleggio padre non si ricorda più nessuno e il figlio è tornato al suo ruolo naturale, quello di piccolo e malinconico imprenditore di provincia.
Non parlo di un movimento volatile – che so, i forconi, i gilet gialli –, ma di un partito capace nel 2018 di far eleggere 230 rappresentanti in Parlamento e di esprimere un presidente del Consiglio che ha governato due coalizioni diverse, anzi di colore tendenzialmente opposto. Una straordinaria storia di successo che rappresenta la pietra tombale per qualsiasi immagine scolastica dei partiti politici. Un non-partito che nasce dal nulla e, presumibilmente, tornerà nel nulla, ma dopo aver cambiato completamente pelle. Niente più escursioni sui tetti e cortei interni a Montecitorio, scatolette di tonno da aprire, democrazia rappresentativa da abolire e facezie simili: ma una politique politicienne paludosa, reticente, fatta di imboscate e ribollente di insulti sotto pelle. Come si è visto nelle elezioni presidenziali, in cui metà grillini volevano la capa dei servizi segreti – a dire il vero, una cosa sperimentata solo in Russia e in qualche stato centro-americano – e l’altra metà la rielezione del vecchio presidente, capace di garantire alla folla di rappresentanti stellati un ulteriore anno di stipendio e vita beata.
Come spiegare tutto questo? Ricorrendo alla mia qualifica ufficiale, quella di sociologo, azzarderei una risposta che chiama in causa il mercato del lavoro. Il M5s ha rappresentato per una quindicina d’anni una vera e propria agenzia di collocamento di giovani (per lo più) privi di specializzazione. E’ vero che i partiti politici sono stati, nell’epoca d’oro delle grandi balene elettorali democristiana e comunista, un’agenzia di collocamento per aspiranti membri del ceto politico – locale, regionale e nazionale –, ma il colpo di genio di Grillo e Casaleggio Sr non prevedeva praticamente costi, se non il mantenimento di un blog: niente spese di formazione o propaganda, affitto di sedi, allevamento in movimenti giovanili, guerre fratricide tra correnti già nei consigli comunali. I grillini sono stati elevati al soglio parlamentare spesso con poche decine di voti e con la semplice investitura di qualche decina di migliaia di iscritti. E soprattutto in assenza di qualsiasi capacità verificata, un’insipienza oggettiva che veniva rivendicata come estraneità alla politica e quindi alla corruzione, che i fondatori dell’impresa concepivano come ubiqua, dilagante, pervasiva. Ho in mente i funerali di Casaleggio Sr nel 2016, con i leader Di Maio, Fico e Di Battista che si abbracciano scandendo “onestà, onestà”. Una scena – se non ci fosse di mezzo un lutto – che bisognerebbe definire come minimo grottesca.
Dilettanti fieramente gettati allo sbaraglio, i grillini diventati politici (diverse centinaia, se contiamo anche gli eletti negli organi locali) provengono dagli ambienti sociali fin lì trascurati dalla macina elettorale. Si fa prima a stabilire i tipi professionali che mancano: non vi troveremo intellettuali di grido, professori universitari noti, e nemmeno soubrette, manager televisivi, anchormen e politici navigati, con cui il talento di Berlusconi ha riempito i ranghi di Forza Italia. Ma, sfogliando gli annuari parlamentari a cinque stelle, ecco una folla – come riporta un sito specializzato –, di “veterinari, ortopedici, ingegneri energetici, giornalisti, biologi, ricercatori di chimica organica, avvocati, criminologi”. Oddio, c’è persino un generale tra loro, ma si tratta per lo più di professionisti minori, vicini di casa, conoscenti della porta accanto, per così dire, quelli che incontriamo quando accompagniamo i figli a scuola e a cui offriamo, dopo mesi di saluti formali, un caffè.
Le loro facce, riportate dalle fotografie ufficiali, emanano candore, onestà adamantina e – mi perdonino – inesperienza programmatica. Mascelle studiose, occhiali dalla montatura vistosa, chiome appena uscite dalle cure del parrucchiere, moltitudini di Morra, Appendino e Raggi, con in più qualche Monsù Travet alla Crimi, una deliziosa assemblea di specialisti in gaffe, “questo lo dice lei!”, propagatori di scie chimiche e altre fregnacce paranoiche, gente che ci saremmo immaginata facilmente sbranata dagli alligatori parlamentari di lungo corso di Montecitorio e Palazzo Madama. Salvo che, in un simile giudizio impietoso, non teniamo conto della volontà di questi rappresentanti del piccolissimo ceto medio di vivere ancora un po’ tra le dolcezze capuane delle supreme istituzioni. Perché tornarsene a casa dopo quattro anni di pranzi di lavoro nelle simpatiche trattorie intorno al Pantheon, voli gratuiti e caffè alla buvette? Perché nascondere la soddisfazione di respirare la stessa aria di gente famosa come Berlusconi o Sgarbi? Nasce qui, in questi brividi tra il sibaritico e il mondano, la sfortuna presidenziale di Draghi. “Ah se la mia mamma mi vedesse”, avrà detto qualcuno di loro mentre le tv li immortalavano durante i cinque minuti di applauso al rieletto Mattarella.
Più ancora di Giuseppe Conte, dilettante tra i dilettanti, Luigi Di Maio rappresenta perfettamente questo tipo umano, sociale e politico. L’unica figura letteraria a cui riesco ad accostarlo è Bel Ami, l’arrampicatore sociale di Maupassant. Con la differenza sostanziale che Di Maio appare del tutto privo dei tratti sgradevoli e manipolatori che rendono odiosa la figura di Bel Ami. Anzi. Ora, io sono solo un professore universitario in pensione, da sempre estraneo a ogni teatro politico e mediale, e quindi posso basarmi su quello che leggo sui media generalisti, sui quotidiani e sui social. Ma mi è difficile immaginare un politico di livello europeo – dopotutto ministro degli Esteri di una delle maggiori potenze economiche mondiali – con un curriculum più leggero di quello di Di Maio. In qualsiasi altro paese che conta, i ministri devono dimettersi quando si scopre che hanno copiato parti della tesi di dottorato. Con Di Maio il problema non sussiste, perché lui, dopo rapide incursioni nelle facoltà di ingegneria e giurisprudenza, non ha acchiappato ancora una laurea di primo livello e quindi nessuno lo accuserà mai di aver copiato dissertazioni qualsivoglia. La questione non è di poco conto. Angela Merkel è laureata in fisica, mentre Macron, dopo la laurea in filosofia, si è diplomato alla prestigiosa École Nationale d’Administration. Chiunque sarebbe intimidito davanti a gente così titolata, ma evidentemente Di Maio non lo è, visto che mantiene in qualsiasi occasione internazionale il suo sorriso a tutta chiostra, l’aria soddisfatta e la capigliatura perfettamente scolpita. Come è possibile che questo figlio di Pomigliano d’Arco si trovi a suo agio tra i grandi d’Europa, anzi della terra? Per rispondere, inizio con una breve considerazione sulla natura del governo Draghi, di cui dopotutto Di Maio è un importante ministro. L’insediamento di Draghi come presidente del Consiglio dimostra che la tecnica – nella forma di una strategia di allocazione delle risorse decisa altrove, cioè a Bruxelles – ha avuto il predominio sulla politica intesa come conflitto di interessi e visioni del mondo. E’ vero che quasi tutti i partiti sostengono il governo, al netto delle convulsioni di Salvini e della sola opposizione di Meloni. Ma questo in nome della necessità, non della libertà. Solo dei pazzi avrebbero rinunciato all’opportunità del Pnrr, perché, con il nostro debito pubblico, il paese sarebbe affondato senza l’elargizione dei miliardi della Ue. Da qui discende tutto, compresa la rielezione di Mattarella. E compreso anche lo stile particolarissimo del presidente Draghi, reticente nella comunicazione, decisionista e intransigente verso i partiti – con la sola eccezione del periodo precedente l’elezione del presidente della Repubblica, quando qualche piccola concessione alla demagogia dei partiti Draghi ha dovuto farla… Nello stile di Draghi rientra anche il protagonismo nelle materie che contano, economia, finanza ed esteri. A parte i dettagli esecutivi, nessuno dubita che le decisioni in tali campi spettano a Draghi. E’ lui che telefona a Macron, Putin e Biden, quando è necessario. E’ lui che dovrà affrontare, oltre ai tremendi capitoli dell’esecuzione dei progetti del Pnrr e della riduzione del debito pubblico, la questione dell’influenza crescente e allarmante della Russia nel Mediterraneo, in Libia e davanti alle nostre coste.
E qui entra in gioco, o meglio esce di scena, il nostro ministro degli Esteri. Incrociando sul web Luigi Di Maio con Putin e Lavrov, o con Biden, non risultano iniziative strategiche o allocuzioni epocali del nostro felpato Bel Ami. Ma onorificenze conferite, dichiarazioni convenzionali, accorati appelli a favore di studenti egiziani detenuti e così via. Mentre scrivo, infuria la faida con quell’altro titano della politica di Giuseppe Conte e circola ampiamente la foto di Di Maio mentre siede al tavolo di un ristorante con Elisabetta Belloni, la super-spia affondata all’ultimo momento – sembra, con il contributo di Di Maio – nella gara per la presidenza della Repubblica. Per il resto, dove cercare tracce delle imprese nazionali e internazionali di Di Maio? Da nessuna parte, perché non ne risultano. E’ vero che il nostro paese annovera ministri degli Esteri non così diversi – penso alla mitica Mogherini. Ma mentre quest’ultima raccoglie i frutti del suo mediocre carrierismo come rettrice del Collegio d’Europa a Bruges, Di Maio è uomo politico di sicuro avvenire.
A dire il vero, Di Maio è, più che un ministro, un luogo geometrico ministeriale definito dall’equidistanza da altri punti del piano prescelto, sia questo il governo, l’assetto del M5s o lo schieramento politico in generale. In questo passaggio verso la pura astrazione, bisogna riconoscergli una capacità di trasformazione dell’immagine pubblica, da sovversivo in abito blu a incarnazione del perbenismo governativo, che ha del miracoloso. Chi si ricorda più della sua sciagurata incursione parigina tra i gilet gialli? O dell’apparizione sul balcone fatale quando proclamò la fine della povertà? Chi oggi lo contempla dal vivo o in immagine si trova di fronte alla quintessenza della vacuità – ma questo non suoni come un insulto, perché è sul vuoto dei mozzi, come sanno i saggi cinesi, che si regge la stabilità della ruota. Si comprende benissimo, ora, perché Draghi l’ha scelto come ministro degli Esteri. Non solo perché un leader del M5s doveva ricoprire un ruolo formalmente importante al governo. Meglio se un leader privo d’esperienza, e forse indirizzabile. Inoltre, mai Di Maio minaccerà le prerogative di Draghi come dominus della nostra modesta politica estera. Ed ecco come, partendo dagli spalti dello stadio di Napoli, un bravo guaglione azzimato si trova a frequentare i grandi della terra, una storia che avrebbe turbato persino il Bel Ami di Maupassant.
A meno che, naturalmente, il conflitto con Conte non deflagri, minacciando la stabilità del governo e quindi la stessa posizione di Di Maio. Ma c’è da dubitarne. E non solo perché i parlamentari grillini, condannati per lo più a tornare, nel 2023, alle loro professioni di agronomi o ingegneri ecologici – se non a una torva disoccupazione – resteranno aggrapparti allo loro scranni finché è possibile. Ma perché ho l’impressione che Conte, abituato tutt’al più ai complotti nei consigli di facoltà, non si sia reso conto dell’abilità degna di Lucifero di Di Maio. Ma un Lucifero, lo diciamo con un sorriso, candeggiato nella lavatrice governativa, soave e letale. So di rischiare il ridicolo, ma azzardo la previsione che, a meno di guerre davanti alle nostre coste o recrudescenze pandemiche, un giorno potremmo trovarci Di Maio leader di un vero partito di centro e magari, chissà, presidente del Consiglio.
Alessandro Dal Lago
sociologo e scrittore, già autore di “Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra” (Raffaello Cortina, 2017)