La partita del Colle: replay. Dialogo sulla recente elezione
Le difficoltà della scelta riguardavano non solo il Quirinale ma anche il governo e il Parlamento. L’interesse dei media e il vuoto della politica. Il ruolo del presidente e i diversi candidati
Voltiamoci indietro per riflettere su come sono andate le cose nella difficile scelta presidenziale. Una scelta difficile perché le voci in Parlamento erano molte e la persona da scegliere una sola: un imbuto molto largo nella parte superiore, molto stretto in quella inferiore. Sentiamo le opinioni di un realista e di un ottimista.
Realista. La scelta era difficile per più motivi. Innanzitutto, si trattava di scegliere un presidente che resterà attivo per tre legislature, quella in corso, quella successiva e l’anno iniziale di quella seguente. In secondo luogo, le forze politiche in Parlamento non erano chiaramente distinte tra centrodestra e centrosinistra; è stato calcolato che almeno un centinaio di parlamentari non possono essere attribuiti all’una o all’altra fazione. In terzo luogo, l’alta frammentazione delle forze politiche: quattro partiti con un seguito oscillante tra il 15 e il 20 per cento, sette con un seguito oscillante tra l’8 e il 2 per cento, per di più con un alto tasso di divisioni interne e una non specularità tra distribuzione dei voti in Parlamento e distribuzione degli orientamenti politici nel paese. In quarto luogo, si trattava di scegliere il presidente, ma anche di decidere la sorte del governo e la durata della legislatura: quindi, una decisione che riguardava Quirinale, Chigi, Montecitorio, Palazzo Madama. In quinto luogo, occorreva scegliere una persona che dovrà “gestire”, tra un anno, non solo un’elezione politica nazionale, ma anche una radicale trasformazione della rappresentanza parlamentare, diminuita di più di 300 unità. Infine, una singolare contraddizione tra un eccezionale interesse dell’opinione pubblica e dei media e un singolare vuoto di politica: non ci si è preoccupati di identificare l’“identikit” presidenziale più opportuno per questa fase politica di passaggio. Lo straordinario interesse dei media per la scelta da fare si è rovesciata come una sorta di accusa per la classe politica ritenuta incapace di decidere sollecitamente, nonostante che l’esito sia stato raggiunto nel giro di una settimana, considerata però un tempo interminabile dall’opinione pubblica. In una parola, una scelta divenuta una gara e un Parlamento di minoranze ritenuto incapace di decidere.
Ottimista. Non c’è da meravigliarsi se per una settimana le forze politiche siano andate alla ricerca di una soluzione. La scelta di un presidente è importante perché egli è il regista delle crisi e le crisi politiche in Italia sono frequenti. Nelle crisi, chi è nella posizione o in grado di trovare una soluzione svolge un ruolo importante. Dunque, una settimana non è un tempo interminabile. Egidio Tosato, parlando il 19 settembre del 1947 all’Assemblea costituente, disse che il presidente della Repubblica è “un grande regolatore del gioco costituzionale” perché deve “assicurare che tutti gli organi costituzionali dello Stato e in particolare il governo e le camere funzionino secondo il piano costituzionale”.
Realista. Le forze politiche hanno oscillato molto, passando dal più longevo degli uomini politici, a non politici, dopo aver tentato anche con Pera e Moratti, che si collocavano in una posizione intermedia. Il tentativo di portare alla Presidenza della Repubblica Berlusconi aveva una sua giustificazione in tre elementi: l’essere il più longevo dei leader politici; l’essere riuscito, nel 1994, a costituire un’alleanza composita tra ciò che restava dell’elettorato socialista e democristiano; avere avviato, valendosi della legge Mattarella, l’esperimento della democrazia dell’alternanza in Italia. D’altro lato, sul suo nome pesavano alcuni aspetti negativi. Primo: non aver seguito il consiglio di Ciampi, di rompere il conflitto di interessi. Secondo: aver fatto, con tutti i suoi delfini, quel che faceva Crono, secondo la mitologia greca. Terzo avere una condanna per frode fiscale.
Ottimista. Tramontata la soluzione Berlusconi, le forze politiche, pur divise, hanno cercato di raggiungere accordi proponendo molti esterni. Questo aveva significati positivi e negativi. Il primo significato positivo: la ricerca di una persona non “committed”. Di molte persone il cui nome è stato avanzato, non si sapeva quale orientamento avessero, per chi avessero votato in passato. Secondo: il tentativo di raggiungere un accordo orizzontale, significativo per una futura introduzione in Italia dell’istituto della sfiducia costruttiva, che ha l’effetto di disintermediare il presidente della Repubblica e di mettere direttamente nelle mani dei partiti politici presenti in Parlamento il compito di formare i governi. Terzo: la ricerca di un cosiddetto tecnico quale presidente della Repubblica comportava anche la sottolineatura di un ruolo più istituzionale del presidente, chiamato meno a dirimere conflitti tra forze politiche e più a svolgere il ruolo di tutore della Costituzione. L’aspetto negativo era costituito dall’enfasi più sulle persone che sui programmi: quindi, è passato in secondo piano quel che serviva al paese. Nell’opinione pubblica, la politica è sembrata troppo attenta alle poltrone, troppo poco ai programmi per il paese. La ricerca di un “Podestà straniero” era però una ulteriore conferma della debolezza delle forze politiche (oltre alle primarie aperte, ai candidati alle elezioni locali cercati nella società civile, al declino degli iscritti ai partiti politici, alla rarefazione dei congressi dei partiti, alla diminuzione della partecipazione elettorale).
Realista. In questo grande discutere sulla persona da scegliere, si sono perduti di vista la carica istituzionale e i suoi compiti. Il Parlamento ha cercato un terreno d’incontro in una zona neutra, per evitare la discordia tra le forze politiche, senza considerare i tre compiti fondamentali del presidente della Repubblica, la sua partecipazione al processo legislativo, la sua forte presenza nell’ordine giudiziario e il suo importante compito nella nomina degli alti gradi dello Stato. D’altra parte, la presenza di alcune “candidature”, in particolare quella della dottoressa Belloni comportava la valorizzazione di una delle colonne portanti del nostro Stato, il ministero degli Affari esteri; una rivalutazione della burocrazia, sempre tanto criticata dalle forze politiche; la valorizzazione di un “civil servant”. Veniva, all’opposto, trascurato l’altro compito che il presidente di un paese così fortemente diviso deve svolgere, l’esercizio dell’arte combinatoria e la sua capacità negoziale per cercare soluzioni governative sempre difficili a causa della instabilità della base sociale dei partiti, della loro difficoltà di raggiungere accordi. Infine, non vi è un solo identikit di presidente della Repubblica, ma tanti quante sono le circostanze in cui egli si trova a operare. E’, quindi, opportuno avere al Quirinale una persona “jolly”, in grado di svolgere le funzioni rivolte verso il corpo politico (in particolare quelle riguardanti la formazione dei governi e la loro sopravvivenza) e le funzioni più istituzionali, rivolte verso lo Stato (la partecipazione del presidente alle tre funzioni fondamentali dello Stato, quella normativa, quella giudiziaria e quella esecutiva).
Ottimista. Immaginiamo un’altra Italia, nella quale le forze politiche non passino il loro tempo a beccarsi, raggiungano facilmente accordi e li rispettino, costituiscano governi e li facciano durare; quando è ora di cambiare, abbiano sempre una soluzione di ricambio, come richiesto dall’istituto della sfiducia costruttiva. Il presidente, liberato dal compito quotidiano di regista delle crisi, potrebbe interessarsi della macchina statale, leggere attentamente le leggi e i disegni di legge prima di autorizzarne la presentazione in Parlamento, partecipare assiduamente alle riunioni del Consiglio superiore della magistratura, di cui è presidente, verificare attentamente la qualità del personale amministrativo la cui nomina passa attraverso il Quirinale. Finora, il presidente della Repubblica, gravato dei compiti rivolti alla politica di ogni giorno, quale regista delle crisi in un paese dalla crisi quotidiana, ha fatto altro. La conseguenza è che le leggi sono illeggibili, l’ordine giudiziario è diventato un potere autonomo, ai vertici dell’amministrazione vi sono spesso persone non selezionate mediante concorso. Basta pensare a quanto importante sia l’ingerenza del presidente della Repubblica nel processo normativo: specialmente ora che il governo è diventato il principale legislatore, il presidente della Repubblica deve apporre la sua firma ai decreti legge, ai disegni di legge di autorizzazione alla presentazione in Parlamento dei disegni di legge di iniziativa governativa (tra cui quelli di conversione in legge dei decreti legge), all’atto finale, in sede di promulgazione.
Realista. Nessuno dei disegni politici ha trovato realizzazione. Né quello di inviare al Quirinale il politico più longevo presente nello spazio pubblico, né quello di cercare un politico in una posizione intermedia, né quello di cercare una persona neutra, fuori dell’agone politico. Scelto il presidente uscente, ci si è subito chiesti se sarà davvero un settennato o se non sarà una presidenza più breve, se mai corrispondente all’anno finale dell’attuale legislatura, in modo da consentire al nuovo Parlamento, nella nuova composizione, anche numerica, di scegliere un altro presidente. Errore gravissimo, perché le durate dei titolari degli organi non possono essere manipolate a piacimento. La diversa durata del presidente della Repubblica rispetto alla durata dei membri del Parlamento serve a più scopi. Serve ad assicurare continuità e passaggi graduali. Serve a dare voce a diverse maggioranze, in modo da non far decidere tutto dalla maggioranza di un certo momento. Serve a temperare il potere della maggioranza, evitando la sua tirannide. Poi, come osservava James Madison in uno dei suoi contributi al “Federalista”, la durata nelle cariche va determinata in relazione alla funzione affidata al titolare della carica. Se compito del presidente della Repubblica è di rappresentare l’unità dello Stato e la sua continuità, il settennato è necessario.
Ottimista. Prima e durante l’elezione di Mattarella si è anche discussa la legittimità di una seconda elezione. Molti hanno detto che 14 anni sono troppi. Ciampi, a chi gli proponeva il rinnovo dell’esperienza presidenziale, faceva questa obiezione. Ma la Costituzione, quando l’ha voluto, ha vietato il rinnovo: ad esempio, l’articolo 135 dispone che i giudici della Corte costituzionale durino in carica nove anni e che non possono essere nuovamente nominati. La questione è risolta anche in altri ordinamenti prevedendo la possibilità di una nuova nomina, ma escludendo una terza nomina. Alcune costituzioni consentono anche una terza nomina, purché non immediatamente successiva. Quindi, in generale, nel costituzionalismo moderno c’è un limite di due mandati.
Realista. Nelle fasi ultime della scelta, più che i leader delle forze politiche, pare siano state importanti i membri dei gruppi parlamentari. Questa soluzione è stata vista con piacere da chi voleva valorizzare i “backbenchers”, piuttosto che i leader dei partiti.
Ottimista. Il presidente eletto ha colto immediatamente il sentimento dell’opinione pubblica insoddisfatta dalle manovre di palazzo. Nel messaggio, nel giorno del giuramento, alle camere riunite ha fatto un discorso molto ampio, più di un quinto più lungo di quello fatto il 3 febbraio 2015. E’ partito dalle esigenze del paese, poi è passato a quelle del Palazzo, per ritornare nuovamente alle esigenze del paese, consapevole della necessità di ricostruire il legame tra paese e politica. Per questo ha dedicato tanta attenzione al problema della giustizia, evitato l’omaggio fatto nel 2015 al Consiglio superiore della magistratura, evitato di adoperare la parola autogoverno con riferimento al Consiglio, posto il problema dell’efficienza e della credibilità dell’ordine giudiziario, delle sue riforme, del superamento delle logiche di appartenenza, della fiducia nella giustizia, del suo prestigio e della sua credibilità.
Realista. Subito dopo l’elezione presidenziale vi è stata la conflagrazione, prima quella della destra, poi quella del Movimento 5 Stelle. L’alleanza delle tre forze politiche di centrodestra è stata dichiarata esperienza finita. Nel Movimento è prima emerso il dualismo tra vecchio e nuovo capo politico, poi è intervenuto il giudice napoletano, sollevando il problema della legittimazione del nuovo capo politico, in base alle norme statutarie e al codice civile. A destra e a sinistra, le forze politiche, con la loro continua litigiosità e il loro sforzo di differenziarsi per intercettare gli elettorati marginali, hanno mostrato la loro incapacità di unirsi, anche perché ciò richiede la formulazione di programmi, più realismo e maggiore forza aggregativa per raggiungere risultati durevoli. Solo il leader della Lega, il 31 gennaio del 2022, appena terminata la vicenda presidenziale, ha scritto sul Giornale un lungo articolo la cui importanza è stata colta soltanto per la proposta di costituire un nuovo partito, definito repubblicano, sul modello di quello americano. Ma quell’articolo conteneva un vero e proprio programma di governo che partiva dalle autonomie, passava per le piccole e medie imprese e i professionisti, proponeva un sistema fiscale con ricorso alla “flat tax”, una riforma dello Stato e della giustizia, sicurezza, legalità e tolleranza, rispetto per la famiglia, rifiuto della “cancel culture”, transizione ecologica, immigrazione controllata, un’Europa delle diversità.
Ottimista. Dopo la settimana di passione dell’elezione presidenziale ci troviamo con un vertice statale tra i migliori in Europa, un presidente di cui abbiamo sperimentato l’equilibrio e la lungimiranza, un governo con persone di alta qualificazione come Draghi, Cartabia, Colao, Giovannini, Giorgetti, Franceschini, Cingolani che molti altri Paesi ci invidiano.
Realista. Rimangono aperte questioni di grande rilevanza. La formula elettorale (la traduzione dei voti in seggi). Molti auspicano un più deciso sistema maggioritario, del tipo della legge Mattarella, ma quasi tutti prevedono che o non si abbandonerà l’attuale legge Rosato, o si passerà a un regime proporzionale con soglia bassa, considerato l’alto numero di forze politiche con seguito elettorale molto ristretto. L’altro problema sul tappeto è quello relativo all’introduzione del presidenzialismo, utile per assicurare maggiore continuità agli indirizzi politici del paese. Infatti, se si prendono i tre poteri in cui si articola lo Stato, si può notare che vi è una stabilità del potere legislativo e dei parlamenti la cui durata è fissata dalla Costituzione in cinque anni e dell’ordine giudiziario, con magistrati che restano fino al compimento dei settant’anni, mentre l’esecutivo è transeunte (il governo Draghi è il sessantasettesimo della storia repubblicana). Un presidente che duri in carica sette anni, con legittimazione popolare diretta, potrebbe assicurare la realizzazione di un indirizzo politico stabile. C’è una contraddizione tra la funzione del governo, centro motore dello Stato, e la sua precarietà.
Ottimista. Un’ultima osservazione: non è tanto importante chi sia il titolare dell’organo, è importante la cultura che si è formata intorno alla Presidenza della Repubblica, una cultura di tipo regale. Il presidente ha finito per essere quel “maestro di cerimonie” che Meuccio Ruini evocava, per negarlo, all’Assemblea costituente. Si è accentuata la regalità, piuttosto che la funzionalità della funzione presidenziale. La tradizione repubblicana ci ha trasmesso un’immagine del presidente più rassomigliante a quella del re che a quella del primo funzionario dello Stato. Questa aura di regalità è accentuata dall’utilizzo del palazzo del Quirinale come sede della presidenza della Repubblica. Lo Stato non sa rinunciare, come ha fatto Papa Francesco, alla simbologia del potere. Non sarebbe utile riflettere sulla possibilità che il presidente della Repubblica abbandoni il Quirinale, per farlo diventare un museo, trasferendosi in una sede più moderna e meno fastosa. D’altra parte, anche il primo re d’Italia non amava il Quirinale e così pure il primo capo dello Stato repubblicano, che rifiutò di utilizzarlo, preferendo palazzo Giustiniani. Poi, Gronchi, Saragat, Pertini non vi risiedettero. Ecco un motivo di riflessione per un futuro non troppo lontano. A chi voglia farla, ricordo che circa mezzo secolo fa un alto funzionario del ministero dell’Interno aveva preparato un documento per realizzare questo auspicato trasferimento.