“La catarsi dei magistrati non è nell'art. 68”, scrive Finocchiaro
Quella riforma non fu frutto di una confidenza con i giudici di Mani pulite, quanto il risultato di valutazioni sull'aderenza al dettato costituzionale. Ci scrive l'ex ministro del Pd
Al direttore - Riprendo volentieri il suo articolo del 16 febbraio, “Cancellare Tangentopoli”. La riforma della seconda parte dell’art. 68 della Costituzione fu, per quanto mi riguarda, non frutto di una “confidenza” con i magistrati di Mani Pulite, quanto piuttosto il risultato di valutazioni politiche sulla stretta aderenza alla Costituzione, di una lettura storicamente avvertita del testo della Carta, e della esperienza parlamentare in Giunta per le Autorizzazioni a procedere.
Ho sottolineato che la riforma riguardò solo la seconda parte dell’art. 68 perché risulti chiaro che essa non scalfì lo spazio di immunità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio della funzione parlamentare. La riforma consistette dunque nell’abolire la necessità dell’autorizzazione nel caso in cui si procedesse per reati “comuni”, che cioè non riguardassero la libertà di esercizio della funzione parlamentare. Questa libertà è stata, sin dai lavori della Costituente che sarebbe assai bene rileggere, l’oggetto della tutela dell’art. 68 nella sua formulazione originaria. Una tutela che non è prerogativa del singolo parlamentare, bensì del Parlamento. Ancora oggi, infatti, nel testo riformato, l’arresto del parlamentare è sottoposto ad autorizzazione a procedere anche se la magistratura procede per un reato “comune”, e questo perché ciò che è oggetto di tutela è l’integrità delle Camere nella loro composizione. Se la magistratura poi si discosta dal dettato costituzionale, ad esempio procedendo per un reato “politico”, o procedendo ad arresti o perquisizioni o intercettazioni fuori dalla regola costituzionale, a sollevare il conflitto di attribuzione tra i poteri possono essere solo le Camere, non il singolo parlamentare.
Ma allora perché i costituenti previdero l’autorizzazione a procedere per sottoporre i parlamentari a procedimento penale, anche per reati comuni? Entra qui in gioco quella valutazione storica di cui parlavo prima: la Costituzione viene redatta in una fase in cui gravemente persiste l’ombra del ventennio fascista, della mortificazione e poi chiusura del Parlamento, delle persecuzioni politiche, dell’attacco a partiti, sindacati e stampa non allineati con il regime. Il libero esercizio della funzione parlamentare viene dunque difeso in un contesto in cui l’indipendenza della magistratura vede la sua prima proclamazione con il testo dell’art. 104 della Costituzione, ma la tradizionale soggezione al potere politico ancora segna i suoi organigrammi, e anche la sua giurisprudenza. Il Csm, previsto in Costituzione a tutela dell’indipendenza della magistratura, viene insediato nel 1959. La Corte costituzionale nel 1953.
Ragioni più che sufficienti, dunque in quel contesto storico. Nel 1993 lo scenario è un altro. L’indipendenza e autonomia della magistratura e la separazione dagli altri poteri dello stato sono un fatto. Così come fatti sono gli arbitri nelle concessioni di autorizzazioni a procedere. Troppo spesso l’autorizzazione a procedere viene negata per garantire l’impunità del singolo, non la libertà di esercizio della funzione parlamentare. Questo chiama necessariamente in causa il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, asse fondamentale dell’impianto costituzionale.
La riforma, quindi, preserva quella libertà e s’impone come limite alla disuguaglianza. Anche queste sono ragioni sufficienti. Quella riforma però aveva bisogno di vivere in un contesto segnato da forza e autorevolezza della politica, consapevole del proprio ruolo e della dignità della propria funzione nazionale, capace di smantellare sistemi di finanziamento illecito difendendo autonomia e qualità della politica. Non fu così. Il piano si inclinò. Di fronte all’attacco giudiziario ci si ritrasse in difensiva o si pensò che qualcun altro potesse sporcarsi le mani facendo pulizia in campo avverso. I media percorsero lo stesso tragico errore di assecondare ed enfatizzare anziché controllare. Qualcuno pensò che nella incertezza della politica poteri economici potessero guidare in proprio il paese e l’opinione pubblica fu accarezzata nel verso del pelo pensando che questo facesse acquistare consenso. Si rinunciò a esercitare egemonia altra. Quello che saltò fu il limite che separa l’ambito dei poteri, fondamento di ogni sistema democratico. Quello che si spostò di luogo fu il senso di onnipotenza, che era stato proprio di una gran parte del sistema politico di maggioranza tradizionale e che prese piede in un pezzo della magistratura.
Basterà ripristinare il testo originario dell’art. 68 della Costituzione per mettere le cose al loro posto? Non credo proprio. Innanzitutto perché, quando ci sono, gli eccessi e le disfunzioni della magistratura penale, specie inquirente, non riguardano solo la politica ma il paese intero, i suoi cittadini, i funzionari dello stato, il mondo delle imprese. Francamente poi mi pare difficile che la catarsi possa stare in quella norma, così come la separazione dei poteri non sta solo nella previsione costituzionale. Sta nella ricostruzione difficile dell’autorevolezza della politica e della sua dignità, nel saperla opera collettiva, nella qualità e disinteresse personale delle sue classi dirigenti, nella paziente opera di ricostruzione di nessi tra istituzioni e paese, nella forza di non assecondare soltanto l’opinione corrente, ma di fare senso comune, insieme, senso del limite e affermazione di prerogative, anche se questo non suscita applausi a scena aperta, nell’affrontare riforme difficili e necessarie senza tremare, sta nel difendere princìpi assumendosene la responsabilità. Fuori da questo non credo ci sia via d’uscita.