la parola ai sabotatori
Fisco, concorrenza, appalti. Le ragioni dell'incomunicabilità tra Draghi e i partiti
Oltre l'inciampo sul Milleproroghe. Le riunioni del ministro Giovannini che indispettiscono i senatori: "Così siamo commissariati". La fermezza di Salvini e quel messaggio a Giavazzi: "Sul catasto noi non ci staremo". Sui balneari ci sarà baruffa. I parlamentari percepiscono la debolezza del premier dopo la partita del Quirinale, e rilanciano. Ma nella Lega la tensione è massima
Il problema, a vederlo dal Transatlantico, è ancora come lo aveva fotografato Peppe Provenzano nei giorni di passione quirinalizia: “Qui c’è una maggioranza di parlamentari – diceva il dirigente dem – che detesta Draghi e non lo voterà mai, e una minoranza che forse lo voterebbe ma che comunque lo detesta”. Anzi, forse è anche peggio. Perché la sconfitta del Colle “ha desacralizzato il premier – aggiunge l’azzurro Maurizio Gasparri – e quindi, se vuole la collaborazione delle Camere, farebbe bene a confrontarsi con noi”.
Eccole, allora, le ragioni del Parlamento. Quelle che dovrebbero indurre il Mef, avevano convenuto tutti i capigruppo della commissione Bilancio col presidente Fabio Melilli, “a concederci 50 milioni per il Milleproroghe”. Solo che queste ragioni, magari non nobilissime, Draghi non le riconosce. E anzi, al di là del Milleproroghe, a indispettirlo è il fatto che l’ostruzionismo delle Camere s’accanisce proprio sulle misure più importanti, legate alle scadenze del Pnrr. E però anche qui, c’è un abisso di incomunicabilità tra Palazzo Chigi e i partiti. La legge sugli appalti, ad esempio, avanza a fatica al Senato. “Ma è perché manca un dialogo sano”, va ripetendo il grillino Andrea Cioffi. Il quale, insieme all’altra relatrice del provvedimento, la leghista Simona Pergreffi, giorni fa s’è visto convocare dal ministro Enrico Giovannini, che ha fornito una griglia bell’e pronta coi pareri del governo sugli emendamenti in esame. E siccome qualcuno ha mugugnato, la viceministra Teresa Bellanova s’è lasciata scappare che in fondo quelle tabelle erano già state concordate con Palazzo Chigi. Voleva svelenire il clima, e invece l’ha incendiato. “Perché così finisce – sbuffano in Forza Italia – che il ministro, commissariato dal premier, commissaria noi senatori, che facciamo la parte dei pirla”. Di certo non vuole farla Paolo Ripamonti, senatore leghista che gestisce il traffico sul ddl Concorrenza. E infatti giorni fa, quando il suo collega dem, Stefano Collina, ha provato a convincerlo dell’opportunità di sveltire i lavori in commissione Industria, ha mostrato il grugno: “Non gliene faremo passare una”.
Del resto la faglia del malcontento, che pure attraversa tutti i partiti, è proprio qui, nella Lega, che rischia di produrre le scosse più forti. Perché sarà pur vero che tra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti non c’è ostilità. Ma è innegabile che tra le rispettive truppe è ormai guerra aperta. E così, se il mite Raffaele Volpi ammette coi suoi colleghi di “non comprendere il senso di certe esternazioni che mettono in difficoltà i nostri ministri”, sul fronte opposto c’è chi, come Claudio Durigon, ribalta la tesi: “Siamo al governo per affermare le nostre priorità, non per accettare ciò che non ci sta bene”.
Ed ecco allora che mercoledì pomeriggio, mandato in avanscoperta alla Camera per constatare le cause dello stallo sulla delega fiscale, Francesco Giavazzi, consigliere economico del premier, s’è sentito dire dai leghisti presenti che in questo caso non vale neppure il vincolo di maggioranza, “perché quando il testo fu approvato in Cdm i nostri ministri non parteciparono, proprio perché dentro c’era anche la revisione del catasto”. E insomma se Luigi Marattin, presidente della commissione Finanze, ha comunicato a Roberto Fico il rinvio dell’approdo in Aula del testo, previsto per il 28 febbraio, è perché, come ha ribadito anche il sottosegretario leghista Federico Freni allo stesso Giavazzi, “prima va risolto il nodo politico”. E a farlo devono essere Draghi e Salvini. Che nei prossimi giorni si rivedranno, e sarà la prima volta dopo i giorni del Quirinale: quelli in cui il capo del Carroccio dimostrò di non voler votare il premier per il Colle, e anche di detestarlo un po’.