un meraviglioso déjà-vu
Ritorna il lessico famigliare e quell'antica saggezza della Prima Repubblica
"Percorso”, “ragionamenti”, “stallo”, “decantazione”: il linguaggio della politica italiana è tornato alle origini
Sarà il ritorno delle tensioni tra Stati Uniti e Russia, con quell’arietta da Guerra fredda che ci riporta subito alla nostra giovinezza. Sarà il ritorno delle tensioni inflazionistiche, che a sinistra fanno subito austerità, domeniche a piedi, estate romana. Sarà il ritorno delle tensioni nel governo, con il presidente del Consiglio che prima sale al Quirinale e poi convoca un vertice di maggioranza, tra minacce di logoramento, richieste di verifica, agguati parlamentari sul Milleproroghe.
Tra tante tensioni, che fortunatamente non sembrano fare ancora una strategia, c’è tutto un lessico antico – anzi, antichissimo – che sta tornando prepotentemente alla ribalta. Perché la vera autobiografia della nazione non è il fascismo. E’ il Milleproroghe: là dove il gergo politico-burocratico sfuma nell’antropologia, nella filosofia, nella letteratura. E che ritrovi anche dove meno te lo aspetteresti.
Come in quella meravigliosa agenzia del 30 gennaio: “Lega, consiglio federale convocato martedì. Matteo Salvini analizzerà il momento politico, con proposte concrete sul futuro della coalizione”. Sembra ieri che annunciava la decisione di far cadere il governo da uno stabilimento balneare, in costume, con un mojito in mano. Altro che consigli federali. E adesso eccolo lì, pure analizzare il momento politico, gli tocca.
E’ come se la rielezione di Sergio Mattarella avesse di colpo decretato la fine di una vecchia stagione e ne avesse aperta una nuova. O forse il contrario. Persino Giorgia Meloni, proprio in polemica con Salvini, ha chiesto ufficialmente “un chiarimento politico”. Espressione classica del linguaggio parlamentare di un tempo. Ancora più minacciosa, a dire il vero, se proveniente da un esponente della maggioranza.
Se poi la richiesta veniva dal partito principale della coalizione di governo, c’era poco da fare, il presidente del Consiglio poteva preparare i bagagli. Come toccò a Bettino Craxi nel 1987, dopo avere ricevuto la lettera di dimissioni di ben quindici ministri, per via del mancato “chiarimento politico” che aveva indotto la Democrazia cristiana a ritenere “venute meno le condizioni” per sostenerlo.
Farebbe bene a rifletterci per tempo Salvini, anche se Meloni, perlomeno, non fa parte della maggioranza, dunque non può far dimettere nessuno. Farebbe ancor meglio a rifletterci Mario Draghi, prima di ripetere a ogni piè sospinto che intende strigliare i partiti e alzare la voce, che così non si può più andare avanti e che bisogna mettere le cose in chiaro.
Certo il fatto che il governo sia andato sotto quattro volte di fila non poteva fargli piacere, ma anche in politica, proprio come in amore, a volte un certo margine di ambiguità può essere persino preferibile all’eccessiva chiarezza. Basta vedere il modo in cui il leghista Claudio Borghi ha spiegato la più clamorosa di queste sorprese, il blitz sull’innalzamento del contante: “Secondo voi se io sono una persona onesta che vuole comprare una collana all’amante che cosa posso fare con il limite a mille euro? Prendo l’auto, vado a Lugano e pago cash”. Che a leggerla – perché non invento niente, lo giuro, l’ho ripresa testualmente dal Corriere della sera ieri – sembra di sentire il tono cantilenante con cui Guido Nicheli ripeteva: “Lavoro guadagno, pago pretendo”. Sta di fatto che giovedì sera, nel vertice con i capi delegazione dei partiti, quello in cui avrebbe voluto fare chiarezza, Draghi l’ha messa così: “Non è possibile che ora, dopo che avevamo convenuto un percorso, si pongano veti”. E viene quasi un moto di tenerezza.
Percorso, parola-chiave del lessico democristiano, è quasi meglio di Milleproroghe. Compagno naturale del ragionamento – perché la riflessione centrista ha sempre un carattere peripatetico, concentrico e centripeto – “Percorso” è il termine che nel dizionario della Prima Repubblica dovrebbe stare a pagina uno, prima di “Anticamera”, prima di “Amicizia”, anche prima di “Abigeato”.
Chissà se da presidente della Banca centrale europea, quando per salvare l’euro gli bastava dire “whatever it takes”, a Draghi sarebbe mai venuto in mente di aggiungere: e comunque, qualunque cosa succeda, sia chiaro, abbiamo convenuto un percorso.
E cosa dire di Giuseppe Conte, un presidente in attesa di giudizio, con tutto il suo statuto nuovo di zecca in balia delle decisioni dei tribunali, la nemesi più clamorosa della politica mondiale dai tempi della peste di Atene. Anche lui forse farebbe bene a non fare troppa chiarezza, a lasciare il maggior margine di ambiguità possibile sulle scelte compiute dal Movimento 5 stelle negli ultimi tempi, in parlamento e al governo, considerando l’effetto prodotto dalle spiegazioni di Manlio Di Stefano sulle ragioni della loro storica opposizione al Tap: “Oggi abbiamo un contesto che mi fa dire: fortunatamente c’è il Tap. Ma se tornassi indietro rifarei la stessa cosa”. Un paralogismo superato solo dal vertiginoso sillogismo della viceministra allo Sviluppo economico Alessandra Todde: “Non è buona l’infrastruttura in sé, è buono il fatto che abbiamo differenziato la fonte e quel gas sia particolarmente conveniente” (che è un po’ come dire che non è buona la benzina in sé, ma il fatto che faccia andare l’auto). Stracciati entrambi, comunque, da Vito Crimi, in un’intervista a Repubblica dal titolo indimenticabile: “Conte non sapeva del regolamento che ci salva. Ho dimenticato di dirglielo” (non che il testo fosse da meno: “Non mi ricordavo nemmeno se il regolamento fosse del 2018 o del 2019. Ho riscoperto alcuni regolamenti di cui nemmeno ricordavo l’esistenza”).
Ciò nonostante, sull’annosa questione del terzo mandato che sta divorando dall’interno il movimento, l’Avvocato del popolo non si scompone. Alle continue domande risponde, pensate un po’, che in proposito sarebbero in corso “ragionamenti” su alcune deroghe. Ciriaco De Mita non avrebbe saputo dirlo meglio.
Quali che siano le vostre opinioni sul vecchio e sul nuovo, sull’antica e mai risolta questione se si stesse meglio quando si stava peggio o se si stesse peggio quando si stava meglio, qualunque cosa pensiate di quella pericolosa fregnaccia della democrazia diretta e di quel grandioso processo di emancipazione e sviluppo che fu la costruzione della Repubblica – l’unica che abbiamo mai avuto e soprattutto l’unica che abbia mai funzionato, fondata sulla centralità del parlamento e dei partiti (parlandone da vivi) – ebbene, non potete negare che con la rielezione di Mattarella, dopo decenni di stagnazione economica non meno che politica e civile, qualcosa si è rimesso in movimento. I giochi si sono finalmente riaperti. Tutto è tornato possibile.
E’ come una musica nell’aria. Una strana via di mezzo tra Wagner e la tarantella. Certo è che da quel momento in poi più di un vecchio democristiano ha cominciato ad alzarsi dal letto con altra energia, a leggere con tenerezza le tante agenzie su Salvini che analizza il momento politico e Meloni che chiede un chiarimento, e a confidare agli amici di una vita, sghignazzando come un ragazzo: adoro l’odore del proporzionale al mattino.
Perché questa è la vera, unica, antichissima novità al centro del tavolo, adesso. E’ attorno alla legge elettorale che ruotano tutte le riunioni, che puntano tutte le convergenze, che si intrecciano tutte le disponibilità, le compatibilità e le responsabilità, in un silenzioso e furioso succedersi di sondaggi e sospetti, valutazioni e verifiche, tentativi, tentazioni, tentennamenti. E’ questo il vero gioco che al tempo stesso muove e paralizza i partiti, in un gioco che è anche interdizione reciproca, bluff e minaccia. Eppure, assicurano i retroscenisti, quello che il presidente del Consiglio proprio non può tollerare è lo stallo. Espressione usata generalmente come sinonimo di paralisi, che negli scacchi ha tuttavia un significato leggermente diverso, a indicare cioè la situazione in cui il giocatore non può più muovere, perché finirebbe sotto scacco, senza tuttavia essere sotto scacco.
Nella Prima Repubblica, il caso di stallo più clamoroso fu dopo le politiche del ’76, quelle dei cosiddetti due vincitori, Dc e Pci, al 38 e al 34 per cento. Primo e inconfondibile segno della difficoltà di trovare una strategia per evitare lo stallo, non a caso, è l’artificiosità delle formulazioni usate per definirla, come dimostrano due fior di ossimori come quelli che andavano per la maggiore allora: le convergenze parallele di Aldo Moro e il nuovo grande compromesso storico di Enrico Berlinguer.
Del resto, lo stesso concetto di ossimoro, dall’unione dei due termini greci che stanno per “acuto” e “ottuso”, sintetizza bene quell’impressione di sofisticata banalità, o se preferite di raffinata scemenza, che la politica italiana dà spesso a chi la osservi dall’esterno, e a maggior ragione dall’estero, specie se abituato alla secca successione di vittorie e sconfitte della politica anglosassone. Cioè esattamente quello che avremmo voluto imitare, importare o comunque impiantare da noi con i referendum maggioritari del 1993, e con tutta l’infinita trafila di riforme istituzionali ed elettorali, tentate, realizzate e fallite, che avrebbero dovuto completare la transizione. Sforzo sovrumano, transizione interminabile che come ben sappiamo, in trent’anni di reiterati tentativi, ha avuto quasi sempre un unico risultato: lo stallo. Inutile illudersi ancora una volta di poter risolvere tutto con una spallata. La galleria degli aspiranti leader che si sono sconocchiati le articolazioni nel tentativo di fare cappotto in questo modo è ormai lunga quanto il cimitero delle riforme che avrebbero dovuto incoronarli.
Anche qui, l’antica saggezza della Prima Repubblica ha già pronta la parola magica capace di sciogliere ogni inutile contrapposizione e ogni sterile polemica: decantazione.
Alla decantazione si dedicavano, in un tempo migliore di questo, interi governi. Quelli che una pubblicistica ostile e volgare avrebbe spregiativamente definito “balneari”, ma solo perché incapace di cogliere le sottigliezze di un processo chimico-politico fondamentale nella formazione di un esecutivo come nella definizione di una maggioranza, quando occorreva del tempo per stemperare i bollenti spiriti eccitati dalla campagna elettorale, per sceverare le proposte politiche concretamente realizzabili dalla propaganda, per lasciare che all’interno dei diversi partiti potesse fermentare il senso di responsabilità.
La decantazione, come il presidente del Consiglio dovrebbe sapere, è l’intervallo indispensabile che separa un veto insuperabile da un voto responsabile, che trasforma lo scontro in incontro, l’addio in arrivederci: è un apostrofo grigio tra le parole “d’accordo”. Perché se è vero che è ormai finita l’epoca delle grandi ideologie – a cominciare da quel socialismo che si annunciava un tempo come “il domani che canta” – qualcosa dell’antico sapore è pur rimasto nel vino nuovo. Perché è questo l’autentico sapore del proporzionale, essenza della Prima Repubblica: il domani che decanta.