Letta lascia intendere che nel 2023, a Palazzo Chigi, non può esserci Draghi
Il leader del Pd indica una svolta nei rapporti col M5s. L'incidente diplomatico con Conte, l'inciampo di Casalino e la decisione di votare a favore di Renzi sul caso Open
"Chi vuole pareggiare resterà in panchina", è l'avvertimento del segretario durante la direzione. L'ex premier resta cauto sul proporzionale. E sulle alleanze le correnti si dividono. Romano (con Guerini) prova a stanare a Forza Italia; Bettini rinnova l'appello alla moderazione della Lega e viene fulminato da Provenzano
Lui che non s’esalta nell’enfasi retorica, per un attimo deve forse immaginarsi come Al Pacino. “Se avrò un ruolo nel definire la quadra per il 2023, se vedrò gli occhi di tigre di chi vuol vincere allora lo metto in campo, se vuole pareggiare allora gli dico di restare in panchina”. Eccolo, Enrico Letta, alla vigilia – vigilia lunga, ma che di fatto è iniziata oggi – della sua maledetta domenica, quella elettorale. E la metafora calcistica è criptica solo agli occhi dei profani. Perché agli altri, nel Pd, l’avvertimento è fin troppo chiaro: chi sogna Draghi premier al prossimo giro, si può scordare di essere ricandidato. E del resto l’ipotesi è fumosa solo in teoria, se anche Giancarlo Giorgetti la paventa. “Ma pensate davvero – ha chiesto il ministro dello Sviluppo ai suoi parlamentari – che col Pnrr da realizzare fino al 2026, con tre partiti appaiati al 20 per cento e le coalizioni sbrindellate, si possa escludere un appello trasversale affinché Super Mario resti a Palazzo Chigi?”.
Al Nazareno non la escludono affatto, evidentemente. E anzi, la condanna alla filosofia da catenaccio, l’anatema scagliato dal segretario durante la direzione verso chi “non ha l’ambizione di vincere, ma l’istinto di sopravvivere”, sottintende proprio quello, come spauracchio: l’idea di perpetuare una maggioranza che invece, per Letta, è “irripetibile”. Ed è ovviamente un avviso ai naviganti, un avvertimento – qualcuno già si sbilancia a dire: “un’intimidazione” – che risuona in tutte le correnti del partito. Le cui spinte contrapposte, restando al di sotto del livello di guardia – e anzi, oggi i messaggi cifrati tra Letta e Franceschini hanno dimostrato che la minaccia forse più subdola, alla stabilità del segretario, per ora è rientrata –, consentono comunque al leader, che equilibrista lo è per natura, di guardare con fiducia all’appuntamento elettorale delle prossime politiche.
E così anche sulla legge elettorale, che era il vero tema su cui i membri della direzione lo attendevano al varco, riesce a essere vago al punto giusto. “Il Rosatellum è la soluzione peggiore di tutte. E se ci fossero le condizioni, noi ci siederemo a un tavolo con le altre forze politiche per migliorarla. Ma noi siamo una piccola parte e da soli non possiamo farlo”. E’ un po’ un vorrei ma non posso: e quel riferimento fatto dall’ex premier al principio del “cittadino arbitro”, quella citazione di Roberto Ruffilli, un precursore della critica al proporzionalismo, lasciano intendere che, nel caso, sarebbe un “non possumus” neppure troppo dispiaciuto. Perché è evidente, come spiegava Lorenzo Guerini ai suoi deputati giorni fa, che “quel che è certo è che da sola la legge elettorale non si cambia”. Che poi è quel che anche Francesco Verducci, orfiniano, ricorda al segretario nel suo intervento, quando dice che “tocca a noi prendere un’iniziativa, anche perché due anni fa accettammo di votare il taglio dei parlamentari proprio nella prospettiva di un approdo al proporzionale”.
E del resto, anche qui le opposte tensioni interne quasi s’annullano, e Letta può comunque prendere tempo. Perché se il gueriniano Andrea Romano spiega che il proporzionale servirebbe anche a gettare un ponte verso il mondo liberale, e ammicca al movimentismo “interessante” del ministro Brunetta (proprio quello che sogna Draghi a Palazzo Chigi ben oltre il 2023, per l’appunto) che “collaborando con noi sulla modifica delle elettorale dimostrerebbe una reale volontà di distanziarsi dal sovranismo”, Goffredo Bettini indica una via un poco diversa. E, ricordando che “io da mesi auspico la nascita di una gamba centrista e liberale nel nostro campo”, auspica l’abbandono del maggioritario anche per “spingere affinché nella destra perché emergano spinte sinceramente democratiche ed europeiste”. E però, poco dopo tocca a Peppe Provenzano, e pure lui riesce, benché sempre elogiando le virtù del proporzionale, a tracciare una nuova strada. “La legge spagnola sarebbe l’ideale, ma ci dovrebbe indurre a marcare le nostre identità: perché noi la destra non dobbiamo educarla, dobbiamo batterla”. E insomma, nella sfumatura che il vicesegretario dà del proporzionale, c’è un “equivoco” da evitare, quando si parla di campo largo: “perché la rincorsa al centro – insiste Provenzano – sarebbe anche stavolta un preludio a una sconfitta, e invece noi dobbiamo pensare agli esclusi, proporci come quelli che combattono le disuguaglianze”, e dunque ben venga – rieccola! – la “tassa di successione”.
Il resto dell’attenzione dei partecipanti alla direzione se la prende il dibattito sui referendum. E anche qui, Letta si espone per quel che è necessario, e non di più. Boccia la revisione della custodia cautelare e lo stravolgimento della legge Severino, e per il resto ribadisce che “gli altri tre quesiti, che riguardano separazione delle funzioni e Csm, sono già in discussione nei provvedimenti promossi dal governo, e deve essere il Parlamento a legiferare”. Il tutto con una cautela tale che alla fine Romano vorrà precisare che “qualora nelle Camere non si arrivi all’obiettivo fissato, il nostro impegno a sostegno di questi tre quesiti deve essere chiaro”.
In fondo sulla giustizia qualcosa si muove davvero, pare. Ed è un muoversi che è sintomo di una volontà, questa sì chiara da parte di Letta, di conqusitare centralità e autonomia nella dialettica di coalizione. Perché domani, come sembra scontato, l’ufficio di presidenza del gruppo al Senato deciderà di votare in Aula a sostegno di Matteo Renzi sul caso Open. Decisione di merito, che ribalta quella adottata settimane fa in commissione, e che dice di una voglia di non lasciarsi condizionare dalle bizze del M5s. Che poi è la stessa voglia che ha spinto Letta a inviare un piccolo, ma significativo messaggio, a Giuseppe Conte. Col quale si era deciso di fissare un incontro, oggi a ora di pranzo, ma si era anche concordato di non darne pubblicità. E siccome invece lo staff del capo grillino lo ha reso noto, alla fine il vertice è stato fatto saltare. “Perché ci sono dei modi, c’è un galateo da rispettare”, dice Walter Verini, deputato dem, ai colleghi grillini interdetti, col tono di chi spiega il senso di un messaggio in bottiglia.
L’altro messaggio, stavolta esplicito, Letta lo manda sulla crisi russa. “La scelta di Putin di annunciare l’annessione del Donbass è inaccettabile, e sia l’Italia, sia l’Europa, devono condannarla senza ambiguità”. E in fondo anche da qui passa la strategia politica dal Nazareno, se è vero che la responsabile Esteri del partito, la deputata Lia Quartapelle, interviene in direzione per affermare che “il quadro delle alleanze internazionali ci aiuta a definire il quadro delle nostre alleanze e a scartare compagni di viaggio che corrono sul filo dell'ambiguità, come Salvini”. Significa, anche qui, volere aprire a Forza Italia? Non chiedetelo a Letta. Per, non vi risponderà.