Buon compleanno centrosinistra. Sessant'anni fa, meglio di un campo largo
Nasceva, quell’esperienza, da un accordo complesso ma sostanziale. Da un lato i leader della sinistra democristiana, Moro gran regista al fianco di Fanfani, dall’altro i socialisti, chiamati a loro volta a rompere definitivamente il fronte compatto col Pci
Il 15 luglio 1960 Pietro Nenni già annotava nei suoi diari che l’accordo per un governo di “convergenze parallele” era raggiunto. Anche tralasciando che la celeberrima espressione attribuita ad Aldo Moro come fosse scritta sulle tavole della legge da Moro non fu mai pronunciata (“convergenza di partiti democratici”, semmai), l’ottimismo del leader socialista dovette aspettare ancora un anno e mezzo: il primo governo di (quasi) centrosinistra nacque infatti giusto sessant’anni fa: il 22 febbraio 1962, come ricorda Paolo Pombeni, politologo emerito dell’Università di Bologna e principe degli storici del partito cattolico in Italia, in un libro di puntigliosa ricostruzione pubblicato dal Mulino, L’Apertura-L’Italia e il centrosinistra 1953-1963.
In quel quarto governo Fanfani, quel 22 febbraio, il “professorino” di Arezzo succedeva a sé stesso, ma la prospettiva politica era per l’Italia davvero inedita. Nasceva, quell’esperienza, da un accordo complesso ma sostanziale. Da un lato i leader della sinistra democristiana – Moro gran regista, al fianco di Fanfani – vincitori di una sfida durata anni con la gerarchia vaticana (il cardinale Ottaviani, capo del Sant’Uffizio, aveva steso di suo pugno sull’Osservatore i “punti fermi” che condannavano ogni possibile intesa con la sinistra); dall’altro i socialisti, chiamati a loro volta a rompere definitivamente il fronte compatto col Pci. Il primo governo di centrosinistra, con l’astensione del Psi. Il centrosinistra vero, prima “programmatico” e poi “organico”, avrebbe dovuto aspettare ancora un po’: un nuovo presidente (Segni) a garantire l’equilibrio sul fronte conservatore, poi nuove elezioni. E i due governi Moro che dal 1963 al ’68 segneranno i favolosi Sixties della politica italiana.
La ricostruzione di questa trasformazione lunga un intero decennio è interessante e istruttiva. Ma lo sarebbe di meno se non permettesse di notare che quel governo di centrosinistra nato sessant’anni fa non ha segnato la nostra storia in nome di un accordo partitico o di una alchimia di maggioranza, come accadrà tante volte nel futuro e fino ad oggi. Quell’esperienza fu utile perché nasceva sulla base forte di un programma e di una volontà di arrivare a riforme essenziali – che oggi chiameremmo malamente “condivise”, e che invece furono frutto di duri scontri, alla luce del sole, condotti però con una serietà di fondo: da questa trattativa non si retrocede. Il governo Fanfani durò poco più di un anno, ma produsse scelte economiche e sociali enormi. La cruciale nazionalizzazione dell’energia elettrica, avvio di nuove politiche industriali; la riforma della scuola con la nascita della media unica unificata, nel 1963. In entrambi i casi i “contraenti” dovettero vedersela con i propri retroterra ideologici. Fu una trattativa complessa anche l’elezione di Antonio Segni al Quirinale, ma sarà lui a varare il primo governo Moro, quello della “apertura a sinistra” realizzata. Nel frattempo a Roma iniziava il Concilio, gran terremoto anche politico per la Chiesa, preceduto dalla crisi dei missili di Cuba e accompagnato da altri rivolgimenti mondiali.
Il titolo che Paolo Pombeni ha scelto per questo suo studio, “L’apertura”, rimanda ovviamente al busillis epocale della “apertura a sinistra” per la gerarchia cattolica, ma anche a quella dei socialisti verso “destra”. Nelle carte di Nenni si legge che Togliatti, formalmente contrarissimo, fu invece di un “possibilismo tattico quasi senza limiti”. Ma più che all’idea di un cedimento compromissorio, di pura tattica (“alla lunga la tattica influenza la strategia”, Nenni) quel titolo allude al gesto iniziale degli scacchi, all’inizio di un gioco di intelligenze che è guerra sublimata e anche capacità di indirizzare gli eventi. Il momento storico, il più alto e produttivo, per l’esperienza della sinistra democristiana, e più ricco di risultati per il governo del paese, in cui la politica seppe mettere sul tavolo (una quantità di tavoli, assise, congressi impensabile oggi) i propri argomenti: con la capacità di trattare e produrre risultato. Molto più dell’impressionismo con cui si tramandano le “convergenze parallele”, e molto meglio di improbabili campi larghi, federazioni, fronti centri e nuovi centri come si immaginano adesso. Quasi sempre senza la durezza quasi ascetica della trattativa, della testa fissa all’obiettivo.