Conte e Salvini scatenano la loro guerra parlamentare a Draghi
I sospetti della grillina Castellone sul Pd. La fermezza di Letta sull'atlantismo crea un asse tra Nazareno e Di Maio. E il leghista Candiani attacca Draghi: "Se ne sta con le mani in mano"
L'ex premier costretto a chiamare uno a uno i senatori dissenzienti sugli aiuti all'Ucraina, ma tre presidenti di commissione vanno contro il governo. Il leader della Lega minaccia il premier sul catasto, e spinge i suoi deputati a opporsi alle richieste di Mef e Palazzo Chigi: "Se qualcuno cerca l'incidente, se ne assumerà le conseguenze"
Il primo si ritrova a dover chiamare a uno a uno i suoi senatori dissenzienti, per ricondurli alla ragionevolezza: “Noi siamo per la pace, ma qui ci sono altri interessi in ballo”. L’altro, invece, la sua giornata di passione la trascorre esortando i suoi uomini alla fermezza, perché “se sul catasto qualcuno nel governo s’è messo in testa di cercare l’incidente, se ne assumerà la responsabilità”. Eccoli, Giuseppe Conte e Matteo Salvini. I due leader con l’elmetto, in assetto di guerra contro i loro stessi alleati nella trincea parlamentare mentre l’Italia s’appresta alla guerra, quella vera.
Conte, che questo martedì d’inizio marzo l’aveva segnato in rosso sul calendario per l’attesa di un responso dal tribunale di Napoli, si ritrova a dover sedare l’ammutinamento delle sue truppe in Senato. Perché certo, il voto contrario di Vito Petrocelli, filorusso irriducibile, era nel conto. Ma l’intervento in Aula di Gianluca Ferrara, quello no. “Quello ci ha annichiliti tutti”, dice il grillino Vincenzo Presutto. Quell’additare l’espansionismo della Nato a est come una delle cause del conflitto scatena la reprimenda non solo di Draghi. “Qui l’unico espansionismo è quello di Mosca”, dice il premier nella sua replica. Che Ferrara però ascolta con sprezzo, alla buvette: “E’ il solito disco rotto. E’ proprio per questa mentalità del piffero che siamo arrivati qui”. Qui dove, senatore? “Qui, a un atto di guerra verso Putin, che ha già detto che colpirà i nostri convogli di armi destinati a Kyiv. E a quel punto sarà la scintilla, l’inizio della fine”. Ma non è l’unico, Ferrara. “Chiunque abbia memoria storica sa che le colpe di questo conflitto sono in grossa parte della Nato”, sentenzia Marco Croatti. E insieme a lui, a esternare malumori ci sono anche Iunio Romano, Alberto Airola. Mauro Coltorti lo ha anticipato nell’assemblea della sera prima, che non è d’accordo. “In fondo – sorride Croatti – da quando c’è Draghi, noi del M5s abbiamo sdoganato il voto random”. E del resto la capogruppo Maria Castellone, che pure fa quel che può per tenere compatto il gruppo, ai suoi colleghi più fidati confessa il dubbio dell’imboscata: “Il Pd ha spinto così tanto per questo voto, anche se lo sapeva che saremmo andati in sofferenza”.
Ma la verità è che Enrico Letta, sul tema del collocamento atlantico, non ammette tentennamenti. Al mattino riunisce la segreteria e ribadisce la linea della fermezza: parla della necessità di rassicurare i militanti, di non “perderci dei pezzi” nella galassia pacifista, perché il conflitto sarà lungo e sarà complicato, e annuncia “mille assemblee territoriali”. E si spiega così, allora, anche l’insistenza con cui i senatori del Pd si rivolgono a Luigi Di Maio per chiedere dei chiarimenti sulla dissidenza grillina. Il ministro degli Esteri, seduto accanto a Draghi, si stringe nelle spalle: “Non dipende da me”. Ed è qui che allora l’irritazione dem viene fatta pervenire a Conte, che chiama Ferrara. “Capisco le tue preoccupazioni. Ma qui c’è un quadro internazionale in ballo”. Alla fine Ferrara rientra nei ranghi. E così l’emorragia grillina si coagula in una rimostranza meno evidente, ma significativa. Perché, oltre al voto contrario di Petrocelli, Coltorti abbandona l’emiciclo, e con lui anche Daniele Pesco, al momento della conta: i presidenti delle commissioni Esteri, Lavori pubblici e Bilancio che vanno contro il governo. Ce ne sarebbe di che aprire un problema politico, sbuffano al Nazareno, se non ci fosse di mezzo una guerra.
Argomento che invece non vale come deterrenza per Salvini. Che interviene in Aula con toni imbarazzati (non pronuncia mai la parola “Putin”) ma anche per dare un mezzo avvertimento a Draghi: “Qui si parlerà e di catasto e fine vita: ma non sarebbe il caso di unirci tutti in nome della pace?”. E’ un segnale. Perché oggi alla Camera si discutono emendamenti scivolosi al ddl sul suicidio assistito. Ma soprattutto, in commissione Finanze si arriva alla stretta decisiva sulla riforma del catasto. Che per i leghisti è un po’ l’affronto supremo. E per questo dapprima Salvini chiede al suo sottosegretario all’Economia, Federico Freni, di invocare un rinvio a nome del Mef. Poi, di fronte alla fermezza mostrata da Draghi, si consulta coi suoi luogotenenti alla Camera e dà ordine di non indietreggiare: “Se qualcuno, a Palazzo Chigi o altrove, cerca l’incidente perfetto, se ne assuma la responsabilità”. Il riferimento è a quel Francesco Giavazzi, consigliere economico del premier, che insiste perché la delega fiscale, che contiene la revisione dei parametri catastali e che è un tassello del Pnrr, non finisca impaludata tra i veti di Montecitorio. E per questo accetta di tornare alla Camera, presso la commissione presieduta dal renziano Luigi Marattin, per indurre i partiti alla risolutezza. La riunione avviene a ora di cena: e il governo, per bocca della sottosegretaria Maria Cecilia Guerra, lancia il missile: “L’articolo sul catasto va posto in votazione e tutti gli emendamenti di maggioranza vanno ritirati”. Il leghista Massimo Bitonci replica a muso duro: “Noi non cediamo”. Forza Italia tentenna, prende tempo. Tutti gli altri si dicono d'accordo col governo. Ma davvero Draghi va in cerca di una crisi, nel bel mezzo di una guerra? “Di certo non deve credere molto nel suo futuro dopo la guerra”, dice, maligno, il senatore leghista Stefano Candiani. “Sennò sarebbe andato anche lui a Mosca a parlare con Putin, come hanno fatto Macron e Scholz. E invece se n’è rimasto con le mani in mano. Così quando ci sarà il tavolo dei negoziati, lui non verrà neppure invitato. E la sua mancanza di attivismo condanna anche l’Italia all’irrilevanza”. Ecco l’altra guerra, per Draghi, quella in casa. Nel senso del Parlamento.