Il Cremlino a Roma
I dubbi in Parlamento sul nostro ambasciatore a Mosca
Di fronte alla guerra Giorgio Starace si mostra più preoccupato per i contraccolpi economici delle sanzioni sulle nostre imprese. E il Parlamento è un marasma. Salvini bussa agli americani
La sensazione è un po’ quella dell’indolenza di fronte al rivolgimento epocale. E forse sta un po’ qui il senso dello stupore che i più convinti tra i deputati di Pd e Forza Italia hanno confessato dopo l’audizione dell’ambasciatore italiano a Mosca, quel Giorgio Starace che ieri mattina la preoccupazione maggiore, nel bel mezzo di una guerra, l’ha mostrata per i contraccolpi economici delle sanzioni sulle nostre imprese. Solo che la risolutezza che i partiti chiedono al diplomatico, è la stessa che manca a loro nel decidere ciò che parrebbe ovvio: e cioè che non può uno come Vito Petrocelli a presiedere la commissione Esteri del Senato.
Enrico Borghi, responsabile della materia per il Nazareno, confessa che “è come se non ci fosse la sensazione di quanto sia profondo il solco che si è scavato”. Parla insomma dal nuovo checkpoint Charlie romano, quello del Copasir: “E come se fossimo nel 1947: o si sta con la Nato o con la Russia”. Lo dice per commentare la fine dell’Aventino leghista in seno al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che durava da oltre sei mesi – da quando il Carroccio s’era vista sottrarre dagli odiatissimi amici di Fratelli d’Italia la presidenza a Palazzo San Macuto – e per rappresaglia aveva iniziato a disertare i lavori.
Evidentemente il rischio di restare isolato nella terra di nessuno, Salvini deve averlo avvertito, se è vero che alle richieste di un colloquio all’ambasciata americana è seguito un dispaccio in cui i funzionari di Via Veneto esprimevano un certo scetticismo per le ambiguità del segretario leghista intorno alla guerra ucraina.
E non è un caso, allora, che anche ieri mattina i deputati del Carroccio siano stati gli unici, insieme a Yana Ehm di Potere al popolo (per dire del situazionismo …) a proporre a Piero Fassino, presidente della commissione Esteri, di enfatizzare le parole dell’ambasciatore Starace. Il quale s’è collegato in videoconferenza dalla sua residenza a Mosca sventolando un grafico del Fondo monetario internazionale in cui veniva fotografato l’effetto negativo delle sanzioni ai danni delle nostre imprese, in un approccio che assecondava, chissà quanto consapevolmente, quello di chi, come Salvini, professa i vantaggi di una pace ora e subito, a qualsiasi condizione. E certo, sarà pur vero che Starace, da sempre attentissimo a favorire la penetrazione commerciale dell’Italia nei paesi in cui ricopre incarichi, si è reso protagonista di risultati eccellenti in tal senso durante la sua permanenza a Tokyo; e però qual principio per cui “business is business” è parso un poco contraddittorio nel momento in cui lui, ieri, ha spiegato che dall’11 febbraio, dal giorno dell’umiliazione di Emmanuel Macron ad opera del Cremlino, all’ambasciata italiana avevano capito che gli eventi stavano precipitando – dando così nuova consistenza a certi sbuffi arrivati dalla Farnesina giorni fa, sul fatto che troppo a lungo dai nostri funzionari a Mosca si è registrata cautela, nelle ore in cui la diplomazia capitolava verso la guerra. Il tutto s’è poi concluso con l’ultima stranezza. Perché quando i deputati hanno chiesto conto della provocazione dell’ambasciatore russo a Roma, Sergey Razov, che ha spedito ai presidenti delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato una lettera non proprio cordiale inviata dal Cremlino, Starace s’è limitato a proporre di chiedere a Roberto Fico di scrivere al suo omologo, il presidente della Duma.
E però, se da un lato il Parlamento italiano pretende fermezza e intransigenza, dall’altro s’accartoccia nelle sue convulsioni inconcludenti. E così, dopo tanto clamore per il suo voto contro il governo sull’invio del sostegno ai resistenti di Kyiv, il grillino Petrocelli sembra già essere stato graziato, blindato com’è nel suo ruolo di presidente della commissione Esteri di Palazzo Madama. Giuseppe Conte ha giurato al Nazareno d’averglielo chiesto, al suo senatore, un passo indietro. Ma quello, di tutta risposta, ha spiegato che “non devo rimproverarmi nulla su come per quattro anni ha gestito la commissione, e non vedo perché debba dimettermi”.
In uno slancio d’ironia, Vito Crimi due giorni fa è arrivato perfino a confessare che “se anche volessimo sanzionarlo non sapremmo chi, e come, dovrebbe farlo”, visto il caos giuridico in cui è avviluppato il M5s. Al che, quando altri fedelissimi di Conte hanno rimproverato al Pd di utilizzare strumentalmente le simpatie russe di Petrocelli (“Ditelo, allora, che volete solo una presidenza di commissione in più”), Enrico Letta ha ritenuto saggio soprassedere, spiegando che “tutte le questioni che non sono la guerra vanno per ora accantonato”, e insomma evitando di stressare ancor più i rapporti complicati con Conte (tribolati anche dal passaggio della deputata grillina Angela Ianaro tra le file del Pd). Almeno fino a martedì prossimo. Quando è previsto un ufficio di presidenza della commissione Esteri in cui Petrocelli sarà chiamato a dire cosa vuole fare. “Vedrete che d’ora in poi terrò i toni bassi”, ha anticipato ai colleghi: come a mettere le mani avanti. Lui da lì non schioda.