Quando l'Urss era di sinistra
C’è stato un tempo in cui i pellegrinaggi a Mosca non li facevano i partiti di destra. Da Berlinguer allo strappo
I giovani di oggi faranno probabilmente fatica a crederci, abituati come sono a vedere sempre orgogliosamente schierati a difesa della Russia e del suo leader, almeno fino a un paio di settimane fa, tutti i maggiori esponenti della destra e persino dell’estrema destra italiana. Eppure c’è stato un tempo in cui i pellegrinaggi a Mosca, le magliette con il volto dei leader del Cremlino e l’accusa di farsi finanziare sottobanco dai loro rubli non erano prerogativa né dei partiti conservatori né dei movimenti neofascisti.
Oggi potrà sembrare assurdo, almeno a chi sia cresciuto ascoltando gli elogi che a Vladimir Putin sono stati tributati in questi anni da leghisti, grillini, forzisti (nel senso di Forza Italia, ma pure di Forza Nuova), eppure c’è stato un tempo in cui i giovani di sinistra scandivano in piazza “Viva Stalin, viva Lenin, viva Mao Tse Tung!”, almeno con lo stesso trasporto con cui Matteo Salvini, il 4 dicembre 2016, twittava “Viva Trump, viva Putin, viva la Le Pen e viva la Lega!”. Un tempo in cui sarebbe stato il segretario del Partito comunista, non il segretario del Carroccio, a definire il capo del Cremlino “uno dei personaggi che lascerà traccia nella storia” (4 luglio 2019). O a dire di lui che aveva “ridato ricchezza, prosperità e orgoglio a un popolo” (25 marzo 2017). O a irridere gli avversari che lo dipingevano come un “dittatore sanguinario” (29 novembre 2017). Un tempo, pensate un po’, in cui il mito dell’Urss era una cosa di sinistra.
E’ pur vero, bisogna ammetterlo, che destra e sinistra sono concetti relativi, destinati a cambiare di continuo, come cambiano i tempi, i miti e anche i riti. Oggi consideriamo di destra cose che un tempo avremmo considerato di sinistra (come il sostegno acritico a regimi antidemocratici dell’Europa dell’est, indicati a modello nonostante le loro palesi violazioni dei più elementari principi dello stato di diritto) e consideriamo di sinistra cose che un tempo avremmo considerato di destra (come il sostegno acritico a qualunque iniziativa della magistratura, specialmente se diretta contro la politica). Ma nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, com’è ovvio, la scala delle priorità e dei valori era piuttosto diversa da quella attuale.
“Nell’Unione sovietica – scriveva per esempio Rita Montagnana, moglie di Palmiro Togliatti – non si pubblicano giornali, riviste, libri a contenuto o con vignette semipornografiche; non si vede nelle edicole o nelle vetrine dei librai nulla che possa offendere lo sguardo della più pudica giovinetta”. A dirla tutta, da quelle parti erano parecchie le cose che non si pubblicavano, ma questo è un altro discorso. “E’ l’Urss, se Dio vuole, il paese dove le giovani donne vanno ancora vergini al matrimonio”, rivendicava con orgoglio Renato Guttuso. Mentre il ventiquattrenne Enrico Berlinguer, al ritorno dal suo primo viaggio in Unione sovietica, agli amici che gli domandano delle donne, di come si vestano e di come si trucchino, rispondeva inflessibile: “Nel paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne, ci sono compagne sovietiche”.
Con gli anni, in ogni caso, il suo giudizio sull’Unione sovietica si sarebbe fatto assai più sfumato (sulle donne forse non tanto, in compenso, almeno se dobbiamo credere all’ampia pubblicistica sul suo essere un “bacchettone”). Lo testimonia il ricordo affidato da Massimo D’Alema a un piccolo libro (“A Mosca, l’ultima volta”, Donzelli), in cui Berlinguer espone il seguente, micidiale apologo, che è forse anche il più duro referto clinico sul mito dell’Urss mai stilato da un leader comunista in carica: “Vedi, questa è la prima legge generale del socialismo reale: i dirigenti mentono, sempre, anche quando non sarebbe necessario. La seconda è che l’agricoltura non funziona. Mai, in nessuno di questi paesi. La terza, facci caso, è che le caramelle hanno sempre la carta attaccata”. E così dicendo, serissimo, Berlinguer faceva il gesto di stropicciarsi le dita, “come se dovesse liberarsele appunto di una carta appiccicosa”.
Un fallimento totale, insomma, sia sul piano politico (i dirigenti che mentono sempre) sia sul piano economico (l’agricoltura che non funziona mai, le caramelle con la carta attaccata). E forse in quelle caramelle da cui non si riusciva mai a staccare bene la carta non c’era solo il segno di un fallimento industriale, ma anche il simbolo di una delusione quasi infantile, un’innocenza perduta, un sogno rivelatosi improvvisamente di cartapesta. O di cartastraccia.
A impedire che la delusione divenisse consapevolezza, che alla perdita dell’innocenza subentrasse la presa di coscienza, in ogni caso, veniva prontamente in soccorso un vasto campionario di scuse, alibi, pretesti e pregiudizi inveterati. Primo tra tutti, ovviamente, la subdola e ossessiva presenza del nemico – le potenze imperialiste – che con la loro sola esistenza giustificavano qualsiasi aberrazione. Teoria singolare, a pensarci bene, per un movimento che aveva quale primo e dichiarato obiettivo il rovesciamento delle suddette potenze imperialiste. Per Hans Magnus Enzensberger, infatti, i comunisti erano come un pugile suonato che lamentasse di continuo: “Ah, se non ci fossero quegli altri che sul ring si accaniscono contro di me, a quest’ora sarei campione del mondo”. Sta di fatto che il vittimismo sull’accerchiamento degli stati capitalisti che volevano strangolare la patria del socialismo e schiacciare la rivoluzione sarebbe rimasto sempre il primo argomento della propaganda sovietica. E anche post-sovietica, come vediamo, purtroppo, anche in questi giorni.
Ciò non significa che dentro e attorno al Partito comunista italiano non si sviluppassero anche un pensiero e una cultura politica originali, capaci di lunga durata, in grado di sopravvivere non solo al crollo dell’Urss, ma in un certo senso anche alla fine del Pci (per gli interessati, se ne trova un’ampia illustrazione nella raccolta di scritti di Giuseppe Vacca, “Italia in cammino”, a cura di Matteo Giordano, Lorenzo Mesini, Tommaso Sasso, recentemente uscita per Castelvecchi).
D’altronde, l’attaccamento all’Urss, per i comunisti, aveva radici storiche e psicologiche di una certa consistenza. Perché l’Urss non era solo il progetto in nome del quale – o se preferite: in obbedienza al quale – erano nati, spaccando il Partito socialista, in una lotta fratricida e durissima, nel 1921 (dando prova peraltro di un pessimo tempismo, a un anno dalla marcia su Roma). Era anche l’unico posto sulla terra in cui potessero riparare, nel mondo sconvolto dall’ascesa di Mussolini e Hitler, e poi dalla guerra. Il fatto che molti di loro, nella patria del socialismo, avrebbero rischiato una fine anche peggiore sarebbe stato a lungo taciuto o rimosso.
Su tutto avrebbe prevalso piuttosto l’idea dell’Urss come unico baluardo contro il montare del fascismo, consacrata dal ricordo dell’eroica resistenza di Stalingrado di fronte all’attacco hitleriano. Il paese che alla lotta contro la barbarie, nella Seconda guerra mondiale, aveva pagato il prezzo più alto.
Questo almeno nei discorsi ufficiali. Quanto all’effettiva consapevolezza della realtà, basta vedere cosa non fece Togliatti pur di sottrarsi all’invito di Stalin a dirigere il Cominform, tra la fine del 1950 e l’inizio del 1951, mentre si trovava ancora a Mosca per la riabilitazione dopo un incidente d’auto, e come prese il voto favorevole e quasi unanime della direzione del Pci alla nomina (che avrebbe comportato tra l’altro le sue dimissioni da segretario). Ne uscì, come avrebbe confidato successivamente a Luciano Barca, e come racconta lui stesso nelle “Cronache dall’interno del vertice del Pci” (Rubbettino), convincendo i dirigenti del suo partito a firmare una lettera collettiva a Stalin in cui si proponeva il compromesso: accettazione dell’incarico, ma rinvio della nomina a dopo le elezioni amministrative. “Ma tu eri pronto a rispettare il compromesso?”, gli domanda Barca. “No, ma l’importante era partire da Mosca”, risponde Togliatti.
Eppure, quando nel 1956 il leader del Pcus, Nikita Krusciov, solleverà il velo sui crimini di Stalin, il segretario del Pci ne sarà tutt’altro che entusiasta. Anzi, non fa nulla per nascondere il suo disprezzo per Krusciov e per i suoi metodi, che considera rozzi e pericolosi.
In una famosa intervista a Nuovi Argomenti Togliatti parla dunque di alcune “degenerazioni” nel sistema (chiarendo però che da questo “non si può assolutamente dire che sia derivata la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica, da cui deriva il suo carattere democratico e socialista e che rendono questa società superiore, per la sua qualità, alle moderne società capitalistiche”). Contesta di fatto il cuore stesso della denuncia kruscioviana del “culto della personalità” (“Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti”). Invita a guardare ai “problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica poté giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità che si era tracciata, e persino di degenerazione”.
Molti, come Italo Calvino, si illudono che sia l’inizio di un vero rinnovamento. Ma la discussione che si aprirà nel Pci sarà tutt’altro che innovativa. “Ci dividemmo sordamente fra chi diceva ‘taluni errori’, ‘errori e colpe’, ‘colpe e delitti’...”, ricorderà Rossana Rossanda.
Chi si espone di più, tra i dirigenti, è Giorgio Amendola, convinto che sia l’occasione per liquidare la vecchia guardia stalinista. Ma resta isolato. Il deputato Fabrizio Onofri, uno dei giovani intellettuali cresciuti attorno a Togliatti, e che più hanno creduto alla sua promessa di rinnovamento, propone le sue idee in un articolo per Rinascita. Il segretario, che della rivista è anche il direttore, dopo averlo letto, lascia a lui la scelta: ritirarlo, o accettare che sia pubblicato sotto il titolo: “Un inaccettabile attacco alla linea del nostro partito”. Seguito, per di più, da una durissima replica dello stesso Togliatti. Onofri accetta, e di lì a poco uscirà dal partito. Come è noto, non sarà il solo.
Oggi, al suo posto, un altro probabilmente se la sarebbe cavata con un tweet. Ma Salvini non è Togliatti, e Claudio Borghi e tutto il resto dell’allegra brigata ex putiniana, ex No vax, ex No euro, ex secessionista, tra le molte altre cose che non è o non è più, ovviamente, non è nemmeno Fabrizio Onofri.
Va anche detto, a onore di Salvini, che i comunisti a rompere i loro rapporti con Mosca ci misero settant’anni, e più di mezzo secolo solo per arrivare al primo famoso “strappo”, quello di Berlinguer. Il leader della Lega, obiettivamente, assai meno. E soprattutto assai meno discussioni, dibattiti, convegni e congressi. I nostri sono, se non altro, tempi più pratici.
D’altronde, come scrisse Alberto Arbasino su Repubblica il 30 giugno 1984, all’indomani dei grandiosi funerali del segretario che aveva portato il Pci al suo massimo storico, quella lentezza non era frutto del caso, né della pigrizia: “Lo strappo da Mosca, l’eurocomunismo, il compromesso storico, e altre trovate opportune e suggestive, furono sovente intuizioni e suggerimenti dei laici più veloci, espressi e manifestati dal mondo radical-chic senza truppe assai prima di ogni manifestazione corale in campo comunista. Il lasso di tempo ogni volta trascorso ‘in mezzo al guado’ faceva sì che si trattasse ogni volta d’arrivare in ritardo a un appuntamento storico, fra circostanze ormai mutate... Questa consapevolezza, l’esigenza di rallentare e ritardare ogni volta per la necessità di tirarsi dietro la gran massa del partito, che forse ‘non avrebbe ancora compreso’ un arrivo tempestivo al rendez-vous con la Grande Politica (e si contentava di un arrivo all’Ovvio), forse questa si è risolta in una vera importante tragedia intellettuale del nostro tempo”. Tragedia cui quaranta anni dopo avrebbe fatto implacabile seguito, come voleva Karl Marx, la farsa.