Il caso

La guerra in Ucraina unisce Di Maio e Conte, ma la linea la dà il ministro degli Esteri

La guerra fra i due dopo il Quirinale, poi il caos dei tribunali, ora la geopolitica li unisce di nuovo

Simone Canettieri

Da "problema" a "soluzione": così il titolare della Farnesina è diventato l'alleato non voluto del capo del M5s

 Le cronache li avevano lasciati ringhiosi. L’uno davanti all’altro dopo il patatrac del Quirinale. Luigi Di Maio gli aveva detto che  aveva problemi di leadership, Giuseppe Conte gli aveva risposto che insomma la porta era in fondo al corridoio: poteva anche andarsene. Poi il solito caos dei tribunali, il blitz romano di Beppe Grillo in versione paciere e all’improvviso: bum, il salto nel vuoto. La guerra in Ucraina.    La crisi energetica.  La minaccia atomica. L’accoglienza di un popolo in fuga. Conseguenze locali: il nuovo Matteo Salvini (ireneo fuori e guerrigliero nel governo), il Pd di Enrico Letta che  smette di balbettare.  Fra le tante pieghe  c’è anche un’altra (piccola) svolta politica. E riguarda il mondo sottosopra del M5s. 

Luigi Di Maio si  sta trasformando da “problema” a “soluzione” per Giuseppe Conte. Il ministro degli Esteri sembra aver dismesso i panni dell’oppositore interno per fare “solo” il titolare della Farnesina. Compito abbastanza impegnativo in questa fase storica così complicata: le trasferte in Qatar e in Algeria con l’ad di Eni Claudio Descalzi, gli incontri continui con il premier Mario Draghi. I viaggi che diventano missioni. Le parole definitive (e non diplomatiche) su Vladimir Putin: “E’ un animale”.  Prima c’erano stati gli affronti dell’omologo russo Sergei Lavrov (“Ha scambiato la diplomazia   per fare viaggi a vuoto in giro per le nazioni o per assaggiare piatti esotici a ricevimenti di gala”). Poi l’annuncio dell’interruzione dei rapporti bilaterali fra Roma e Mosca. 


 Di Maio ha cambiato registro comunicativo: sui giornali non escono più mezze frasi birichine dei sui tribuni o silenzi maligni da interpretare: parla “in chiaro” e di continuo. Senza volerlo, o forse sì, dà la linea del governo in politica estera, certo, ma fra le righe toglie a Conte l’imbarazzo di avere ereditato un partito filorusso, anti Nato, contro le sanzioni a Mosca e perfettamente in asse con la Lega di Matteo Salvini nel 2018. 
La linea estera del grillini è quella di Di Maio, e in questo momento i partiti si pesano solo su ciò che pensano delle cose extra italiane.  L’unico problema dell’ex premier è Vito Petrocelli, presidente della commissione Esteri del Senato (filoputiniano) sul quale sta facendo pressioni affinché molli e si dimetta dall’incarico. Operazione lunga. Oggi potrebbe essere il giorno buono per un passo indietro, ma Conte ci crede e ci spera il giusto. Cioè: poco. La tregua fra l’ex premier e il ministro degli Esteri è merito della guerra. Non vanno a braccetto, ma la storia bussa più forte delle loro liti da comari. E così i duellanti si confrontano, partecipano a call con il resto dei vertici del partito, poi ognuno tira dritto per la propria strada, senza astio. 


A Conte tocca il compito del segretario amministrativo del partito: giovedì e venerdì farà di nuovo votare gli iscritti per la modifica del contestato statuto del M5s che il tribunale di Napoli ha sospeso facendolo decadere  dalla carica di presidente. Ci sarà sicuramente un altro ricorso contro questa votazione e le faccende interne dei grillini (prima forza del Parlamento) continueranno a scivolare dritte dritte fino alle amministrative della prossima primavera. Quando la possibilità di rimanere fuori dalle liste elettorali diventerà realtà. Il clima interno al M5s è abbastanza mogio, i rapporti con l’alleato Pd inesistenti (la settimana scorsa c’è stato anche il “ratto della Ianaro”, dal nome della deputata pentastellata rubata dai dem) e Conte è costretto a negare per ammettere: “Tutti ci descrivono abbacchiati, sfiduciati, in realtà c'è tantissima dedizione, passione e coraggio”. Magari sarà così, intanto  i duellanti   fanno finta di marciare uniti. Convinti che prima o poi la resa dei conti dovrà arrivare.  Ma solo quando ci saranno cose meno serie delle attuali. 
 

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.