(foto Ap)

Se le autarchie scoprono che hanno un disperato bisogno dei paesi che vogliono combattere

Claudio Cerasa

Prima la pandemia, ora la guerra. Gli ultimi anni dimostrano che il mondo descritto da Putin esiste solo nella sua testa

Ventre molle un corno. Le immagini arrivate ieri da Mosca dallo stadio di Luzhniki, stadio scelto da Vladimir Putin per celebrare l’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea e il ventitreesimo giorno di massacro degli ucraini, sono immagini che potrebbero offrire agli osservatori più distratti un effetto distorto sintetizzabile in una formula che grosso modo sarebbe: la forza tranquilla dell’autarchia. Ciò che però ieri il presidente russo ha tentato di mostrare al mondo attraverso il suo ennesimo discorso criminale sulla necessità di denazificare l’Ucraina è un’immagine che in realtà riflette un mondo che esiste solo nella testa di Putin. E la verità è che più passano i giorni e più risulta evidente ciò che ha provato a sostenere David Brooks in un formidabile editoriale pubblicato due giorni fa sul New York Times.

Tesi di Brooks: le autocrazie possono giocare quanto vogliono con i fuochi d’artificio dell’illiberalismo, mosse dalla convinzione che le limitazioni delle libertà siano necessarie per rendere il proprio mondo più efficiente, ma quando le autocrazie vengono messe di fronte alla risoluzione di problemi complessi il loro destino è coincidente con uno scenario prossimo al fallimento. Brooks nota che nel passato in molti hanno tessuto le lodi delle autocrazie, invidiando a queste la capacità di saper rispondere velocemente alle sfide  della modernità. Gli ultimi anni però, prima con la pandemia e ora con la guerra, hanno dimostrato che le autocrazie, nei momenti di difficoltà, hanno un disperato bisogno dei paesi che vogliono combattere.

Lo ha dimostrato la Cina con il suo vaccino, il Sinovac, risultato talmente poco efficace da essere stato sostituito con i vaccini occidentali da molti paesi che lo avevano acquistato. Lo ha dimostrato la Russia con il suo vaccino, lo Sputnik, talmente poco efficace da aver spinto due terzi dei russi a evitare la vaccinazione. Lo ha dimostrato, in queste ore, l’effetto generato dalle sanzioni che hanno colpito l’economia russa, connessa con l’occidente più di quanto Putin potesse immaginare, a un livello così profondo e radicato da aver avvicinato la Russia a un passo dal default. E lo ha dimostrato, se vogliamo, il dialogo di queste ore tra Stati Uniti e Cina, tra Joe Biden e Xi Jinping, per tutti Mr Ping, che ha messo in luce una necessità non di poco conto per la Cina: sostenere la Russia nella guerra all’Ucraina, ha scritto ieri Bloomberg, è un rischio troppo grande perché i costi interni per Xi Jinping potrebbero superare i benefici dell’affrontare gli Stati Uniti.

Il fallimento strategico delle autocrazie costringe però anche i sostenitori delle società aperte a porsi delle domande complicate sul futuro della globalizzazione. E in un mondo in cui un terzo delle importazioni di beni consumati nelle democrazie liberali proviene dalle autocrazie e in cui le cosiddette società aperte scambiano oltre 15 miliardi di dollari al giorno con le cosiddette società chiuse è inevitabile mettere a tema un problema magnificamente illuminato dall’Economist. “Questa tensione tra la logica del libero scambio e il sostegno al liberalismo politico creerà crepe profonde. E le democrazie libere dovranno prima o poi chiedersi se per le società aperte sia normale oppure no condurre relazioni economiche con quelle autocratiche, che diventano sempre più minacciose quanto più si arricchiscono con i nostri soldi”.  I governi liberali, suggerisce l’Economist, devono trovare una nuova strada che combini apertura e sicurezza e che impedisca che il sogno della globalizzazione si indebolisca. E in questo senso, di fronte alle autocrazie che falliscono nel loro progetto di autosufficienza, la sfida del futuro sarà questa: trasformare la potenza di fuoco espressa dalle economie oggi in lotta contro i crimini di guerra di Putin non solo in uno strumento di difesa ma anche in uno strumento di attacco, per esportare in giro per il mondo tre parole che solo le società aperte oggi possono far convivere insieme: benessere, democrazia e libertà. Ventre molle? Un corno.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.