L'austerità di una volta. Storia di un dibattito lacerante che rischia di riproporsi
Negli anni Settanta Enrico Berlinguer, come un “frate zoccolante”, l’aveva elevata a strategia politica. Anche dentro al Pci non tutti erano d’accordo
L’austerità, un po’ come le donne nude in copertina, al cinema e in tv, è stata di sinistra prima di diventare di destra. E’ stata persino marxista, in quell’epoca necessariamente frugale in cui s’inventavano le domeniche a piedi e l’Estate romana, prima di diventare liberista, ai tempi della crisi dell’euro, della Grecia in default e dell’impennata degli spread. Per tornare oggi, a quanto pare, democratica, probabilmente anche bipartisan, e senza dubbio seccante.
Le parole e le idee della politica, come certi amori, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Predicare sacrifici e taglio delle spese superflue è stato vetero-marxista prima che neo-liberista, proprio come esibire tette e culi è stato un gesto femminista prima di diventare maschilista (liberazione sessuale prima che imposizione patriarcale, e poi segno di sfruttamento, oggettificazione, mercificazione del corpo delle donne).
Molto prima che Angela Merkel e Wolfgang Schäuble comparissero nelle nostre vite, in mezzo ad astruse discussioni su ordoliberismo e mercantilismo della destra tedesca, su paesi frugali del nord e paesi spendaccioni del sud, austerità è stata la bandiera di Enrico Berlinguer, forse il più caratteristico dei suoi slogan, e quasi certamente anche il più vilipeso, persino più del famoso “compromesso storico”.
Se poi dagli anni Settanta volessimo risalire ancora indietro, agli anni Cinquanta, e prima agli anni Trenta, di sicuro scopriremmo che entrambe le cose – austerità e nudità – hanno fatto il giro completo e si sono scambiate di posto molte altre volte, da destra a sinistra e da sinistra a destra. Come lo hanno fatto i soldi e il sesso, del resto, e così la loro rappresentazione e i valori cui li associamo, la loro censura ed esecrazione da un lato, la loro esibizione ed esaltazione dall’altro.
Dovrebbe essere inutile aggiungere – ma lo aggiungo lo stesso perché non si sa mai, in questi tempi intellettualmente così pudichi – che tra l’austerità predicata da Berlinguer e quella predicata da Merkel c’è la stessa differenza che corre tra la nudità che compare nelle foto di Helmut Newton e quella che compare nei film di Alvaro Vitali.
Sin dagli anni Trenta austerità e nudità hanno fatto il giro completo e si sono scambiate di posto molte volte, da destra a sinistra e da sinistra a destra
“Austerità, occasione per trasformare l’Italia” è non per niente il titolo della relazione conclusiva al famoso “convegno degli intellettuali” tenuto nella capitale, al teatro Eliseo, il 15 gennaio del 1977. Qui il segretario del Pci rilancia un concetto di cui, in verità, aveva parlato già nel comitato centrale dell’ottobre precedente, ma che ora, fuori dagli organismi di partito, assume ben altro valore.
Non è uno slogan come un altro, una trovata per intrattenere la platea di un convegno tra mille. “Vogliamo – spiega Berlinguer – fare una cosa che non si è mai fatta in Italia, sia per la sostanza che per il metodo: arrivare, cioè, a un progetto di trasformazione discusso tra la gente, con la gente”. Non si tratta di applicare dottrine o copiare modelli già esistenti, ma “di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo che stia, però, sotto la pelle della società, che sia, cioè, maturo, necessario, e quindi possibile”. Un grande sforzo di partecipazione che nasce “dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano”.
Sono i tempi della crisi energetica e dell’inflazione a due cifre, certo. Sono passati meno di quattro anni dalla prima crisi petrolifera, causata anche quella da una guerra (in questo caso, la guerra dello Yom Kippur tra Israele e una coalizione di stati arabi guidata dall’Egitto), quando il governo guidato da Mariano Rumor ha dovuto varare in tutta fretta il primo decreto di austerity per ridurre i consumi di energia: taglio dell’illuminazione pubblica, chiusura anticipata per negozi, cinema, bar e ristoranti, sospensione alle 23 dei programmi televisivi. E il 2 dicembre del 1973 anche la prima “domenica a piedi”, con il divieto di circolazione per auto private e agli altri veicoli a motore non autorizzati (l’idea di farne una misura ecologista arriverà solo dopo).
Tuttavia, spiega nel 1977 Berlinguer, l’austerità non è per il Pci “un mero strumento di politica economica” cui si debba ricorrere per superare una crisi congiunturale (“Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti”), bensì un modo per superare un sistema ormai in crisi, i cui “caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero”, l’individualismo e il consumismo. “L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia”. Di conseguenza “l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale”.
“Può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale”, dice Berlinguer
La posizione, come si vede, è tutt’altro che difensiva. Toni, lessico, contesto, tutto indica come non si tratti affatto di fare buon viso a cattivo gioco, di adattarsi come possibile a una situazione sfavorevole. Al contrario: “Il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità”.
Bisogna intendersi, però. Perché l’austerità “può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia”.
Alla base del discorso berlingueriano – oltre alle note influenze del gruppo cattolico-comunista di Franco Rodano – c’è nientemeno che il processo di decolonizzazione, visto come causa principale di quella crisi del capitalismo occidentale che dà alla sua analisi toni quasi apocalittici (“Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali, come afferma il Manifesto dei comunisti, per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia ‘una trasformazione rivoluzionaria della società’ o si può andare incontro ‘alla rovina comune delle classi in lotta’; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese. Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo”).
Ciò non di meno, è da sinistra che Berlinguer si attira le critiche più dure, a onta della straordinaria fortuna postuma che proprio in ambienti radicali la predicazione dell’austerità incontrerà in tempi a noi più vicini, quando il segretario del Pci, bollato lì per lì come un moralista e un conservatore anacronistico, un “frate zoccolante” e un uomo del Medioevo, sarà riscoperto come un precursore e un padre nobile, specialmente tra i sostenitori della decrescita e delle varie teorie critiche dello sviluppo.
Allora, però, a stroncare la proposta è un fronte larghissimo, specialmente tra quegli intellettuali cui il Pci si rivolge. Un fronte che va dall’area laico-socialista agli ambienti dell’estremismo extraparlamentare, dal gruppo del manifesto a un pezzo dello stesso Pci.
“Caro Berlinguer, solo coi sacrifici non si trasforma la società. L’austerità in genere è una raccomandazione dei padroni. L’austerità dei poveri fa parte della loro vita”, sentenzia Norberto Bobbio.
“Penso che cantare l’austerità sia un esercizio da oratorio”, dice Lucio Colletti.
“Separata da una strategia di potere, l’austerità è solo una stretta di cinghia per i più poveri”, attacca Rossana Rossanda.
Forse però la critica più inaspettata è nell’articolo di un autorevole economista e parlamentare comunista (eletto come indipendente nelle liste del Pci), pubblicato su Rinascita il 28 gennaio sotto il non amichevole occhiello: “Un polemico intervento di Claudio Napoleoni” (che non è proprio il celebre “Un inammissibile attacco alla politica del Partito comunista italiano” con cui il fondatore della rivista, Palmiro Togliatti, aveva pubblicato l’articolo in dissenso di Fabrizio Onofri nel 1956, ma insomma). A dare la misura della tensione, basta il carattere dirompente, per non dire iconoclasta, dell’incipit: “Mi propongo di identificare alcuni problemi che, a mio parere, sorgono dal discorso conclusivo tenuto da Berlinguer al recente convegno promosso dalla sezione culturale del Pci e dall’Istituto Gramsci”.
Il dibattito, come si usa dire, resterà aperto a lungo. E raccoglierà sulla stampa giudizi sempre meno lusinghieri. “Aria fritta, ma intellettuale” è il titolo di un articolo di Giorgio Bocca su Repubblica. E forse anche certi elogi non aiutano, come l’articolo in cui Enzo Forcella, sempre su Repubblica, apprezza lo sforzo di Berlinguer per “instaurare una moralità nuova”, lui che “come si sa, è un rigorista. Non ama il lassismo dei costumi, è convinto che gli studenti debbano ricominciare a studiare con la serietà dei vecchi tempi”, depreca “la rivalutazione delle devianze, la vita come gioco e piacere”.
A stroncare la proposta è un fronte larghissimo, specialmente tra quegli intellettuali cui il Pci si rivolge. Arbasino ne fa una questione linguistica
Forse a respingere gli attacchi più ostili non contribuirà neppure la nettezza con cui Berlinguer sceglie di tenere il punto, respingendo le facili ironie sul suo “ascetismo” con le parole del primo ministro vietnamita Phan Van Dong, secondo cui “l’uomo è fatto per essere felice: solo che non è necessario, per essere felici, avere un’automobile”. Parole che a rileggerle oggi, verosimilmente, anche al più tetragono dei comunisti, farebbero forse venir voglia di obiettare: accidenti, nemmeno un’utilitaria?
Per Alberto Arbasino, in ogni caso, la questione è principalmente linguistica. “Dal momento che il nostro Paese – scrive – si avvia verso una povertà duratura e autentica, sembra più che giusto, da parte dei politici più responsabili, ‘tenerla presente’, cioè prevederla, calcolarla, o addirittura (non potendo evitarla) prometterla”. Naturalmente “con tutti i riguardi”, cioè parlando, per esempio, di “sacrifici”, termine “così familiare e illustre nella tradizione cattolica”, oppure chiamando la povertà “austerità”, cioè “una cosa dignitosa e fine, che appartiene alle medesime categorie spirituali della severità e del decoro, e non a quelle così realistiche della miseria e della fame”. E subito, implacabile, prende a descrivere gli intellettuali adibiti dal Pci alla promozione di “hobbies austeri, animazioni austere, dibattiti austeri, marionette austere, sceneggiati su figure austere, canti popolari austeri, mostre di grafica di paesi austeri, festival di cinematografie austere, prime austere di opere austere davanti a pubblici in costume austero…”.
Va anche detto che l’osservatore non è certo ben disposto, avendo già messo a verbale il suo giudizio, estetico-antropologico prima che politico, sulla “smisurata tristezza italiana che si legge nei visi di Berlinguer e di Moro”.
“Noi parlavamo di sesso libero, e i nostri padri comunisti ci facevano cambiare la gonna se era troppo corta”, scrive Lucia Annunziata
Del resto, una ribellione non meno radicale, e ben più violenta, sarebbe venuta alla luce appena un mese dopo, il 17 febbraio, con la cacciata del segretario della Cgil, Luciano Lama, dall’università La Sapienza di Roma (al grido, tra l’altro, di “i sacrifici fateli voi”), da parte di un composito e per niente austero miscuglio di autonomi, indiani metropolitani, studenti ed estremisti di varia estrazione. Una ribellione che, da un punto di partenza diametralmente opposto a quello di Arbasino e degli altri critici del moralismo berlingueriano, converge sullo stesso obiettivo, almeno stando a quanto ne scriverà trent’anni dopo (“1977 – l’ultima foto di famiglia”, Einaudi) Lucia Annunziata, al tempo stesso osservatrice e partecipante del movimento: “Noi parlavamo di sesso libero, e i nostri padri comunisti ci facevano cambiare la gonna se era troppo corta. Il Pci amava soprattutto l’ordine, l’organizzazione, la disciplina. Ogni padre comunista voleva da noi, esattamente come i padri borghesi, una sola cosa: che si andasse bene a scuola e si trovasse un buon lavoro”. Insomma: “L’incidente di Lama nasceva da quello che i comunisti erano in quel periodo. Dal loro grigiore, da quelle sezioni buie che rendevano le loro bandiere rosse attaccate alle pareti umide e flosce, dal senso di muffa permanente, da quei rituali in cui erano avvolti, da quel linguaggio che parlavano”. In una parola, si potrebbe dire, dalla loro austerità.
E forse proprio questo aspetto etico e antropologico, così ben illuminato nella sua contrapposizione irriducibile ai giovani di allora, tanto agli estremisti di sinistra quanto ai primi prototipi degli yuppie che sarebbero arrivati di lì a poco, meriterebbe di essere ricordato con una certa nostalgia, anche da chi allora non c’era. Anzi, soprattutto da chi allora non c’era. Da chi, come i giovani di oggi, per ragioni anagrafiche, quei padri non li ha conosciuti, ma quei figli sì.