Ambigui pacifismi

Giuseppe Conte, l'avvocato di Vlad

Salvatore Merlo

Le strane coincidenze tra le minacce russe e il pacifismo di Giuseppe Conte. I dubbi del Copasir che non ha chiuso il caso e dalla seconda settimana di aprile ascolterà i testimoni dei giorni della missione russa in Italia

Felice di un’indigestione cosmopolita, eccitato dall’atmosfera esotica da fiction in stile “West Wing”, gesticolante e soprattutto parlante in eccesso, compiaciuto ed euforico di trovarsi al telefono con un pezzo da novanta: così appariva, o meglio così viene descritto da chi c’era, Giuseppe Conte sabato 21 marzo 2020 nel momento in cui si accordava telefonicamente con Vladimir Putin per l’invio, nell’Italia afflitta dal Covid, di 28 medici, 4 infermieri e 72 militari russi  guidati dal generale Sergej Kikot. L’ufficiale che, una volta atterrato con i suoi uomini e i suoi mezzi, sosteneva di essere autorizzato a muoversi “su tutto il territorio italiano” in base a un “accordo politico di altissimo livello”. Cosa che, come ha raccontato al Foglio l’ex capo di stato maggiore della Difesa, Enzo Vecciarelli, pare non gli fu permessa dai militari italiani. “Che Mosca volesse raccogliere informazioni sul Covid è vero”, ha spiegato Vecciarelli. “Che poi volesse cercare altri dati è plausibile”, ha aggiunto.

  

Il Corriere della Sera, giovedì, ha rivelato che i russi tentarono di avvicinarsi a due basi militari, in Lombardia e in Puglia. Tutte ragioni per le quali l’indagine dei servizi segreti, e quella del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, non si sono affatto interrotte. Il caso non è chiuso. A partire dalla seconda settimana di aprile saranno ascoltati tre importanti testimoni: l’ex coordinatore del Cts Agostino Miozzo (“i russi volevano entrare nei nostri uffici pubblici, ma ci opponemmo”), il segretario generale della Difesa Luciano Portolano (“quella missione era anomala da ogni punto di vista”), e il generale Vecciarelli, appunto. Quali erano questi accordi politici  di altissimo livello? 

E si torna così alla conversazione tra il presidente del Consiglio e il dittatore russo. Alla mirabolante emozione provata da un piccolo provinciale, passato per così dire dal baretto di Volturara Appula ai saloni del Ritz, che si trova al telefono con Putin. E che forse, trascinato da una vanagloria paesana, si abbandona a concessioni verbali. Eccessi? Untuosità? Promesse superficiali, se non addirittura vere smargiassate con la mano sul petto. Come quando ad Angela Merkel, un anno prima, a Davos, travolto dalla vanità, garantiva ciò che non poteva garantire: “Angela, non preoccuparti di Salvini e Di Maio. La mia forza è che se io dico ‘ora la smettiamo!’, loro la smettono”. Diceva così, nel 2019, lui che in realtà a quel tempo era chiamato “il presidente di due vicepresidenti” perché da Salvini e Di Maio prendeva gli ordini. Le grandezze del soldato fanfarone, emozionato davanti a Merkel. Come con Putin. Maneggiando però argomenti ben più compromettenti. Con un ex colonnello del Kgb. E tutto questo mentre al Cremlino, intanto, com’è normale, la conversazione veniva registrata. A uso futuro? Ricattatorio? Risale al 19 marzo scorso l’oscura minaccia di Alexei Paramonov collegata alla missione russa in Italia. E’ lo stesso giorno in cui si manifesta la sensibilità pacifista di Conte sulle spese militari della Nato. L’indagine prosegue.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.