Ma quale messinscena?
Non è che siamo un paese incapace di riconoscere il tragico? L'eccezione italiana
In nessun altro paese europeo, informazione e politica sono marcate da dibattiti demenziali come quello sulla fiction di Mariupol e Bucha o dall’equidistanza circense di certa destra sovranista e piccola sinistra antioccidentale
Ci dev’essere una ragione. In nessun altro paese europeo, come accade invece in Italia, informazione e politica sono marcate da dibattiti demenziali come quello sulla fiction di Mariupol e Bucha o dall’equidistanza circense di certa destra sovranista e piccola sinistra antioccidentale. Problemi politici ci sono anche in Francia o in Germania: Marine Le Pen lo scorso ottobre aveva siglato un patto sontuoso con il putiniano d’Ungheria e la sua campagna elettorale è finanziata da una banca magiara vicina a Orbán; una figura centrale della socialdemocrazia tedesca di nuovo al potere, Gerhard Schröder, è da anni nel circolo del Cremlino e della sua politica di interscambio energetico.
Però tra rinnegamento e silenzio, i filorussi di rango sulla questione ucraina si sono imboscati con un certo senso del pudore (non che ci si possa fidare, ma è così). Quanto alle discussioni pubbliche, a cercarli con il lanternino non si trovano, nemmeno in grandi paesi ferventi di ideologismi anti Nato o storicamente affetti da una tendenza profonda al neutralismo o Nationalneutralismus, sfilacciamenti più o meno fatui come da noi. Da quando Putin ha agito per mangiarsi l’Ucraina con la sua indipendenza e libertà, a forza di bombe e massacri, tutto si è semplificato e ha prevalso un pensiero unico in difesa dell’aggredito tra politici, intellettuali, esperti, figure intermedie della comunicazione e dell’informazione. È un pensiero unico che incorpora il pluralismo delle fonti, dice tutto di tutto, ma non si squilibra verso il caos soggettivista per l’essenziale. Una forma di libertà con ancoraggio razionale.
L’eccezione italiana è nel fatto che tre partiti rilevanti cincischiano o boccheggiano, adottano in linea di principio la disciplina nazionale e euroatlantica ma mugugnando, distinguendo, e variamente afferrando le occasioni possibili per segnalare un loro recalcitrare al pungolo della realtà. Nell’arena televisiva (con qualche spazio anche nella stampa) questo si trasforma, appunto, nel circo dell’equidistanza o in un parteggiare appena dissimulato per la logica intenibile dell’aggressore. In Francia Hélène Carrère d’Encausse, che fa Zourabichvili, nome georgiano assonante con Džugašvili, che è il cognome di Stalin, è con tutta la famiglia di cultura e talento grande russa integralmente dalla parte giusta della barricata; qui filosofi veneziani e artisti savonesi si passano di mano in mano, perplessi, le foto satellitari di Bucha e le versioni politiche opposte sulla guerra d’aggressione. Domanda: siamo un paese più libero e multiforme, che rigetta l’unità delle idee a fronte della tragedia perché non accetta una versione delle cose dominante, o siamo decisamente un paese stupido, senza sale e senza spina dorsale, incapace di riconoscere il tragico, le situazioni senza alternative? Propendo per la seconda che ho detto.
Al tutto concorre la depoliticizzazione dell’editoria e la frammentazione professionale tra giornalismo, expertise e showmanship. Far soldi con le idee in ogni situazione è il complemento cinico di una libertà che non incontra i limiti della ragione e i condizionamenti della verità. Il palinsesto de La7 sarà negli anni studiato come un caso di omologazione al caos opinionistico. L’indifferenza al bene e al male, una cui venatura infiltra il gesuitismo di un papato posteuropeo e postoccidentale, aggiunge pepe al composto, che per paradosso risulta in apparenza più gustoso, in realtà meno palatabile.