Matteo Salvini al Papeete nel 2019 (Ansa)

Rischi e prospettive

Quanto è concreto un nuovo Papeete? Numeri per orientarsi

Luca Roberto

Dopo gli ultimi incidenti politici è tornata d'attualità la prospettiva di una crisi di governo, con Salvini e Conte in prima fila, per rilanciarsi verso elezioni del 2023. Abbiamo fatto i conti, alla Camera e al Senato, per capire se il draghicidio è davvero possibile

Le scene da saloon in commissione Finanze alla Camera sono il preludio a un finale di partita nella maggioranza? Dopo gli ultimi incidenti politici se ne inizia a parlare con maggiore intensità, anche perché la crisi di governo in Italia è un genere letterario molto fortunato. Per darle una veste di serietà però c’è bisogno di farsi almeno due conti. Partiamo da un po’ di numeri in chiaro. Il governo Draghi è nato a febbraio 2021 con il sostegno di una maggioranza ampissima: 535 deputati e 262 senatori (M5s, Lega, Pd, Forza Italia, Iv, SI e gruppi centristi). Tredici mesi più tardi, i consensi al governo erano già calati: sul Dl Ucraina hanno accordato la fiducia al premier 367 deputati e 214 senatori. Comunque ben al di sopra della soglia di sopravvivenza: 316 alla Camera, 161 al Senato.

 

Ora che la Lega continua a piazzare sulla strada del premier nuove trappole – catasto, delega fiscale, legge sulla concorrenza –, ha senso farsi una domanda: cosa potrebbe accadere se Salvini decidesse di sfilarsi? Senza l’intero gruppo parlamentare della Lega la consistenza della maggioranza calerebbe a 385 deputati e 188 senatori. Con un margine, quindi, di più 69 nella camera bassa e più 27 nella camera alta. Non sarebbe un guaio per il presidente del Consiglio proseguire il suo lavoro. Discorso molto diverso rispetto all’ipotesi che, in una riedizione dell’asse gialloverde, dopo continue picconate simboliche dal governo decida di tirarsi fuori pure Giuseppe Conte: in questo caso, il ritiro della fiducia da parte dei 156 deputati e 73 senatori grillini farebbe subito naufragare l’esperienza dell’ex presidente della Bce. È uno scenario senza alcun presupposto logico, però.

 

Come s’è reso plastico nella partita del Quirinale, Conte controlla solo su una parte dei gruppi parlamentari. Attualmente, 49 deputati e 18 senatori sono al secondo mandato: significa che tra meno di un anno potrebbero essere messi da parte. A scanso di deroghe tutte da chiarire nel metodo e nel merito. Diversi di questi aderiscono alla cosiddetta ala dimaiana. Sosterrebbero Draghi? Sono numeri che in ogni caso non consentirebbero di far proseguire il governo (la nuova maggioranza senza i contiani e i leghisti sarebbe di 278 deputati e 133 senatori). Detto questo è piuttosto improbabile che tutti i grillini al primo mandato seguirebbero Conte nel salto nel buio, mettendo fine alla legislatura e con la certezza di non essere rieletti, a causa anche del taglio del numero dei parlamentari. Secondo un calcolo fatto qualche settimana fa a Palazzo Chigi, i contiani non sarebbero più di 60 alla Camera.

 

Mentre al Senato, dove risiede la vera ridotta di Conte, è molto indicativo che nell’elezione del capogruppo dell’ottobre scorso, l’ex premier abbia dovuto ingoiare la bocciatura del suo prediletto, l’uscente Ettore Licheri, dopo che per un pareggio nel gruppo dei senatori (36 a 36) si era deciso di fare spazio a Mariolina Castellone. C’è poi un’ulteriore ipotesi: e cioè che la Lega decida di non votare la fiducia ma si astenga: un appoggio esterno. La maggioranza richiesta si abbasserebbe a 127 senatori e 249 deputati. È un caso più di scuola che pratico. Perché è evidente che il passaggio di Salvini all’opposizione renderebbe strutturale lo stallo in alcune delle commissioni, come quella Finanze, in cui solo un mese fa sulla riforma del catasto il governo è sopravvissuto per un singolo voto: quello del deputato di Noi con l’Italia Alessandro Colucci.

 

E a proposito di centristi: cosa farebbe Forza Italia? In questo momento dispone di 80 deputati e 51 senatori. Salvini premendo sul tasto della federazione tentava di portarne diversi alla sua causa. Ma come ha evidenziato l’affaire legato alla nomina di Paolo Barelli come capogruppo alla Camera lo scorso ottobre, ci sono almeno 26 deputati (quelli che all’epoca vi si opposero con una lettera) che sono considerati draghiani di ferro: tra questi i ministri Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Forse è il segno che, al di là delle ambizioni di draghicidio che coltivano Conte e Salvini per lanciarsi in campagna elettorale, le truppe si accontenteranno di una navigazione travagliata. Fino a fine legislatura.
 

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