Un nuovo ordine europeo. Il manifesto di Enrico Letta
Un saggio del segretario del Pd in esclusiva per il Foglio
Una costruzione fragile da rafforzare. La minaccia di Putin è il Leviatano che obbliga l’Europa a fare il definitivo salto di qualità. Energia, Difesa, politica estera e sociale: perché dalla guerra e dalla pandemia devono nascere “sette Unioni”
L’Europa è la nostra protezione. Perché, in un mondo di violenti, noi abbiamo il privilegio e la fortuna di vivere in uno spazio politico i cui valori fondanti sono il dialogo, la pace e la forza del diritto, anziché la legge del più forte. L’Europa è insostituibile. Anche chi ne fa bersaglio di critiche, deve riconoscere che è l’unico riparo nei momenti più drammatici. L’Europa è una costruzione fragile. Basta che uno dei 27 stati membri decida di mettersi di traverso e tutto si complica maledettamente, fino alla paralisi politica. Per questo l’Europa va cambiata e resa all’altezza della sua missione storica e delle aspettative dei cittadini. Soprattutto, va liberata dal cappio del diritto di veto che la soffoca nelle sue aspirazioni. Va rafforzata nella sua dimensione sociale. Va, finalmente, resa adulta nel campo dell’energia, della sicurezza e della politica estera.
La minaccia di Putin è il Leviatano che obbliga a fare questo definitivo salto di qualità e a dimostrare che, appunto in un mondo di violenti, si può prosperare ed essere protagonisti con la forza dei nostri valori. Ora il compito è uno solo: completare il percorso che abbiamo iniziato 65 anni fa. Per la prima volta possiamo farcela, mai siamo stati così vicini alla svolta federale. In Italia la fiducia nell’Ue, dopo il 24 febbraio, è tornata a toccare i livelli massimi da 10 anni. E ovunque in Europa, quando li hanno visti minacciati, i cittadini hanno deciso di schierarsi convintamente a difesa dei propri valori. Milioni di persone sono scese in piazza. Hanno capito che è il momento dell’unità. C’è, appunto, un momentum, uno slancio a sostegno del progetto europeo.
Questo mentre nella tragedia ucraina si scontrano due visioni antitetiche delle relazioni internazionali. L’Unione europea ha l’ambizione di essere potenza di valori: proietta interessi e valori non attraverso la forza, ma attraverso le regole, la pace, la cultura, uno stile di vita e un modello di sviluppo unici. Dall’altra parte c’è Putin che alla forza della legge oppone la legge della forza, recapitando al mondo un messaggio chiaro: non c’è spazio per modelli alternativi al suo, un mix di nuova politica di potenza e vecchio imperialismo.
Della sua repulsione per l’europeismo non ha mai fatto mistero: per lui l’Ue non è nel novero delle grandi potenze. Ragiona con le lenti del Novecento e dal Novecento mutua le ambizioni, sempre frustrate, di una Russia aspirante gendarme ed egemone dell’ordine securitario del Vecchio continente.
Difendere da Putin il modello europeo significa, in primo luogo, far capire che essere potenza di valori non è velleità da idealisti o anime belle. Questa difesa la dobbiamo a noi stessi e a chi continua a guardare con speranza all’Europa. Agli Ucraini che resistono e lottano per la propria dignità e indipendenza, ma anche per la libertà europea. Non possiamo lasciarli soli e non può, né potrà mai esistere alcuna equidistanza.
Per essere potenza di valori, capace di difendere la pace, l’Ue ha bisogno di strumenti all’altezza delle sfide odierne e di una dottrina strategica che dia forza ai nostri principi. Oggi ci sono tutte le condizioni per portare il processo di integrazione europea a un nuovo livello. Dalla guerra e dalla pandemia, devono nascere “sette Unioni”. Sette Unioni da realizzare, che hanno radici lontane, ma che sono tornate estremamente attuali nella cronaca di questo tempo di crisi.
Prima, l’Unione in politica estera. La reazione immediata c’è stata. Subito, in risposta all’invasione dell’Ucraina, l’Unione ha dimostrato una forza mai dispiegata in questo ambito. Nel giro di poche ore sono state approvate sanzioni senza precedenti per intensità e portata. Come senza precedenti è stata l’unità europea: unanimità nelle procedure e anche nella condanna politica. Una postura inedita, rivoluzionaria rispetto al passato, quando gli interessi divergenti sulla Russia avevano finito per dividere i paesi Ue. Le sanzioni funzionano, stanno facendo male, nonostante le minacce e i tentativi di aggirarle.
Gli analisti concordano nel prospettare una caduta verticale del pil russo nel 2022, anche fino al -10 per cento o addirittura -12 per cento secondo le più recenti previsioni. Le sanzioni funzionano perché la comunità internazionale ha agito compattamente, a partire dai paesi membri dell’Ue e dai partner dell’asse transatlantico. Il congelamento delle riserve della Banca centrale russa, piano messo a punto da Mario Draghi direttamente con Janet Yellen, è stato efficace proprio perché ha coinvolto gran parte del sistema finanziario globale.
L’Ue deve fare tesoro di questa lezione, se vuole difendere i propri valori e il proprio ruolo. Con la stessa unità, deve ora adottare misure per proteggere le nostre economie, compensando famiglie e imprese per le conseguenze delle sanzioni e mettendole quanto più possibile al riparo dall’inflazione. Ma, soprattutto, deve far sì che la risposta unitaria e immediata di questi mesi sia la regola, non l’eccezione.
Seconda Unione: quella allargata ai nostri vicini. Anche qui pronta è stata la consapevolezza di dover dare un segnale politico ai paesi che vogliono entrare nell’Unione. Per l’Ucraina, la Moldavia, la Georgia “essere Europa” è, letteralmente, questione di vita o di morte.
Non possiamo reiterare l’errore fatto dopo l’89. Allora, ai paesi dell’ex blocco sovietico fu imposto di stare in sala d’attesa per 15 o 18 anni prima di entrare nell’Unione europea. E ciò a dispetto dell’ingresso fulmineo della Germania dell’Est attraverso la riunificazione. Questo limbo infinito ha alimentato una frustrazione che ha strascichi ancora oggi e si traduce in diffidenze e incomprensioni. E’ la stessa insoddisfazione mista a impazienza che avvertiamo nei Balcani occidentali, un’area strategica soprattutto per l’Italia.
A maggior ragione in questa fase di instabilità deludere ancora le aspettative rischia di essere un boomerang. Accogliere oggi per integrare domani è una priorità geopolitica per l’Ue. Impensabile (ed autolesionista) chiudere la porta a chi agogna la democrazia europea e rigetta i modelli autocratici.
Dobbiamo costruire una Confederazione europea, una sorta di anello più largo che tenga insieme i 27 paesi membri dell’Ue con i paesi candidati. L’Ue continuerebbe il suo percorso ordinario ma si aggiungerebbe, accanto, un luogo politicamente molto visibile per far crescere l’identità europea di coloro che vogliono aderire.
Una Confederazione che non sostituisce, dunque, il percorso formale di adesione – che continuerebbe in parallelo – ma che può offrire un’alternativa valida alla rigidità dell’attuale sistema binario del “dentro o fuori”. Senza annacquare i requisiti di un’adesione piena all’Ue, la Confederazione dovrebbe prevedere luoghi e momenti di condivisione delle grandi scelte strategiche dell’Europa, a partire dalla politica estera, la difesa della pace e la promozione della lotta al cambiamento climatico. Immagino dei vertici europei in cui il primo giorno ci si incontri a livello di Ue e il secondo giorno a livello di Confederazione.
A proposito di accoglienza, la terza Unione, da cui sono venuti segnali di un cambio di passo, è quella delle politiche comuni di asilo. Inutile rievocare i fallimenti epocali di questi anni: l’immigrazione è il grande buco nero dell’Europa. Anche in virtù dell’asimmetria geografica della questione, per oltre un decennio abbiamo vissuto dentro una contrapposizione frontale tra paesi mediterranei, in prima linea nell’accoglienza e nel reclamare un approccio europeo al fenomeno migratorio, e Centro Europa, ostile a qualunque opzione di solidarietà tra stati.
Con la crisi ucraina lo scenario si è ribaltato. In pochi giorni la Polonia è diventata il secondo paese al mondo per numero di rifugiati ospitati. E così, sempre nel giro di poco, è stato possibile raggiungere l’unanimità necessaria ad attivare per la prima volta la Direttiva Ue sulla protezione temporanea, strumento introdotto nel 2001 ma mai utilizzato a causa del gioco dei veti nazionali.
E’ un passo storico: la Direttiva garantisce il diritto di soggiorno per almeno un anno all’interno dell’Ue ai cittadini in fuga dall’Ucraina, senza dover entrare nel labirinto delle procedure di richiesta d’asilo necessarie dopo 90 giorni di permanenza.
E’ tanto, ma non basta. L’Europa ha gestito bene l’emergenza, ora deve dare una risposta strutturale al governo dei flussi migratori. Neanche questa è una sfida semplice. Diversi paesi già avanzano obiezioni in funzione della differente natura tra chi arriva da est e chi attraversa il Mediterraneo. Obiezioni irricevibili politicamente ed eticamente. Respingerle e trovare un accordo che concili solidarietà e opportunità è un test di maturità per l’Europa come comunità di valori.
Quarto grande capitolo: l’Unione dell’energia. La guerra in Ucraina ha rimescolato le priorità dell’agenda politica portando in cima alla lista la questione della dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili. Oggi gas e petrolio ci espongono a una doppia vulnerabilità: geopolitica e climatica. Geopolitica, perché il territorio dell’Ue è praticamente privo di giacimenti di fonti fossili: ospita solo il 0,2 per cento delle riserve globali di gas naturale e lo 0,1 per cento delle riserve di petrolio. Climatica, perché l’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) dell’Onu ci ricorda che “senza una immediata e profonda riduzione delle emissioni in tutti i settori, limitare il riscaldamento globale a 1,5° è fuori portata” ed è quindi necessaria una “sostanziale riduzione dell’uso di combustibili fossili”.
A questa duplice vulnerabilità c’è esclusivamente una soluzione: accelerare sulla produzione di energia pulita. Questo non può avvenire senza una dimensione europea per una politica energetica comune. Il piano REPowerEU va nella giusta direzione, ma occorre fin da subito maggiore integrazione sulle dimensioni principali dell’Unione dell’energia: acquisti comuni, stoccaggi condivisi, integrazione delle reti e progetti di investimento coordinati.
Quest’ultima, in particolare, è fondamentale per raggiungere l’obiettivo prioritario: moltiplicare la nostra capacità di produzione di energia da fonti rinnovabili, così da coniugare – finalmente – sostenibilità e sovranità (quindi autonomia) energetica, liberandoci allo stesso tempo dalla dipendenza dalle fonti fossili e dalla necessità di importare prodotti energetici. Ma questa transizione sarà efficace solo se saprà essere giusta. Tutte queste azioni devono essere inserite in un quadro di solidarietà europea e connotate da requisiti di equità. Equità sociale, all’interno dei paesi, per evitare l’effetto gilet gialli e garantire una transizione giusta. Ed equità anche tra stati, perché nel percorso per arrivare all’Unione dell’energia bisogna prevedere meccanismi di compensazione tra paesi per evitare di ampliare, anziché diminuire, le divergenze economiche nel mercato unico, come ricorda sempre Paolo Gentiloni.
Dalla sicurezza energetica alla sicurezza militare: la quinta Unione è quella della Difesa. A orecchiare il dibattito italiano sui media sembra quasi un’intuizione dell’ultima ora, una novità. In verità sappiamo bene che di Difesa europea si parla dagli albori del progetto di integrazione. Nel 1954, dopo il naufragio della Comunità europea della Difesa, un’idea di matrice federale per risolvere la questione europea, si virò verso una proposta più funzionalista che portò alla nascita, nel 1957, della Comunità europea. Da allora, di Difesa comune non si è mai più voluto parlare seriamente, almeno fino all’elezione di Donald Trump.
Il paradosso della mancata integrazione nella Difesa lo confermano i numeri: sommate, le spese militari dei 27 Stati Ue sono quasi quattro volte superiori a quelle della “superpotenza militare” Russia. Eppure, ciò non si traduce in un’adeguata capacità difensiva. Questo perché l’assenza di sinergie genera inefficienze e ridondanze, mai come oggi insostenibili. I nuovi sforzi in sicurezza e difesa, già concordati dagli Stati europei, devono accompagnarsi alla costruzione di una governance di ispirazione federale, riprendendo l’intuizione della Comunità europea della Difesa.
Il percorso per arrivarci è quello suggerito da Romano Prodi, passa da un patto tra Germania, Francia, Italia e Spagna. Se i quattro più grandi paesi europei non decidono di andare in quella direzione sarà impossibile arrivarci. E se non ci arriviamo continuerà la tensione sui rapporti transatlantici e sul ruolo della Nato. Continueranno le contraddizioni tra il “burden sharing” richiesto dagli Stati Uniti ai partner europei in materia di costi della Difesa e la legittima volontà di noi europei di sviluppare la nostra autonomia strategica. L’Unione della Difesa è la scelta da compiere con determinazione. E’ l’unico modo con il quale possiamo costruire un’efficace sintesi tra l’esigenza di protezione e il bisogno di sviluppare la nostra identità di potenza di valori.
Il modello europeo, tuttavia, non deve difendersi solo da nemici “esterni”. Ce ne sono di agguerriti dentro le nostre stesse democrazie. Gli antidoti sono, in particolare, le ultime due Unioni da realizzare, la sesta e la settima.
La sesta Unione è quella dell’Europa sociale. In questi anni populisti e conservatori hanno minacciato perfino apertamente i capisaldi della democrazia e dello stato di diritto. Per rispondere a questa minaccia interna, è necessario rafforzare l’Europa sociale proseguendo il percorso avviato a maggio scorso con il Summit di Porto, a partire dagli sforzi per prolungare e rendere strutturare Sure, il piano europeo contro la disoccupazione.
Mai come ora esiste un nesso inscindibile tra democrazia e modello sociale europeo. Nel tempo delle grandi transizioni, una democrazia che funziona ha una forte dimensione sociale: è lo spazio della redistribuzione, della solidarietà e della tutela dei diritti. Come ha ricordato Jacques Delors nel 2016: “Se la politica europea mette in pericolo la coesione e sacrifica gli standard sociali, non c’è possibilità per il progetto europeo di raccogliere il sostegno dei cittadini europei”.
Per lo stesso motivo, non è più rinviabile la costruzione di un’Unione della Salute – la settima – che garantisca a tutti i cittadini europei gli stessi standard di assistenza e benessere, superando differenze territoriali che rimangono scandalose anche solo all’interno della Italia. Ursula Von Der Leyen ha pubblicamente espresso il suo auspicio che proprio questo sia uno dei risultati della Conferenza sul futuro dell’Europa, il grande processo di democrazia partecipativa che da quasi un anno coinvolge cittadini, parti sociali, società civile e istituzioni in una discussione trasparente e inclusiva. La Conferenza rappresenta una grandissima occasione per ridare slancio al percorso di integrazione europea, per la prima volta sulla base di indicazioni espressione di riflessioni e discussioni tra cittadini, che sono andate oltre i classici strumenti di coinvolgimento della democrazia rappresentativa. Ma questa occasione rischia di essere sprecata se non si affermerà una chiara volontà politica di prenderne sul serio le conclusioni, con un impegno concreto a portarle avanti.
Queste sette Unioni non possono ovviamente prescindere da un ripensamento della governance economica europea. La proroga della sospensione del Patto di Stabilità – che, in questo contesto di guerra, mi aspetto venga annunciata al più presto – non può trasformarsi in un alibi per posticipare ancora una volta una discussione seria. Una riforma del Patto di Stabilità è indispensabile e attesa da tempo. La pubblicazione, il 4 aprile, di un paper congiunto da parte di Spagna e Paesi Bassi dimostra che il dibattito è aperto e lascia intravedere la possibilità di inedite alleanze. L’Italia deve giocare un ruolo di leadership, perché si tratta di una partita strategica per la nostra economia, che più di altre non può permettersi la terza recessione in dieci anni. Deve saper dare un contributo determinante, come fatto con la costruzione di Next Generation Eu e come deve fare ora per la sua effettiva attuazione. Il Patto di Stabilità deve diventare il Patto di Sostenibilità, che consenta in maniera strutturale gli investimenti pubblici necessari alla transizione ecologica e al rilancio di un’economia sostenibile, in linea con la strategia proprio di Next Generation Eu. In questo nuovo quadro, le regole di rientro dal debito dovranno essere parametrate al contesto di ogni singolo paese, come anche indicato da Spagna e Paesi Bassi, così da non strozzare la crescita e non ripetere gli errori del passato.
In tutti gli ambiti citati, l’Europa sta cercando di dare risposte all’altezza del momento. L’attuale architettura istituzionale dell’Ue sta già permettendo alcuni passi in avanti sul fronte di un’azione più coordinata e più incisiva. Ma non è abbastanza: serve lo scarto, la visione. Ci sono infatti limiti ad ulteriori passi in avanti nell’integrazione europea all’interno dei Trattati vigenti. Si riassume tutto in una parola: “unanimità”. Sono i veti nazionali a non permettere all’Unione europea di essere ancora più efficace nella sua azione.
Basta un esempio per renderci conto dell’assurdità della situazione: nel 2020, dopo i brogli elettorali in Bielorussia e la repressione violenta delle proteste di piazza, la Commissione europea ha immediatamente annunciato un pacchetto di sanzioni, che però è rimasto bloccato per più di un mese a causa del voto contrario della sola Cipro. E’ difficile non pensare che questo ritardo sia stato uno dei segnali che ha spinto Putin a rischiare il tutto per tutto, convinto che l’Ue non sarebbe stata in grado di reagire neanche di fronte a un’invasione su larga scala.
Il potere di veto è forse tra gli aspetti più paradossali dell’Ue: è l’elemento principe della debolezza europea, ma è quello più utilizzato da alcuni leader nazionali per sentirsi illusoriamente forti. Primo fra tutti, il premier ungherese Orbán che, non appena rieletto, ha usato la legittimazione popolare ottenuta per farsi paladino del veto. Non lo ha posto su un singolo tema, ha presentato una minaccia più grande: ricorrervi in maniera sistematica. L’unanimità rappresenta da sempre l’ostacolo più grande al percorso di integrazione europea. Lo vediamo fin dai tempi di Margaret Thatcher, la cui eredità europea è pesantissima. Ponendo continuamente limiti, freni e ostacoli ha reso l’Ue una costruzione asimmetrica, molto avanzata in termini di integrazione economica, ma debolissima sui fronti dell’integrazione politica e della protezione sociale. Danni che scontiamo ancora oggi.
Senza un salto in avanti istituzionale, l’Ue non potrà essere una vera potenza di valori nel mondo di oggi e, soprattutto, di domani. La modifica dei Trattati non può più essere un tabù, ma deve diventare una battaglia politica concreta.
Oggi, quando tutti sembrano disposti a sacrificare posizionamenti tattici in nome di urgenze e interessi più alti, si è aperta una finestra di opportunità. E’ il momento di lanciare una nuova Convenzione europea, sulla scia della Conferenza sul futuro dell’Europa, che si chiude tra un mese, il 9 maggio. La Convenzione è la naturale conseguenza della Conferenza: partire dalle proposte dei cittadini, discusse con istituzioni e parti sociali, per arrivare a una riforma dei Trattati. Sarebbe il primo, grande esempio delle potenzialità che può avere la democrazia nel terzo millennio. Questa naturale continuità è anche suggerita dai macro-temi che la Conferenza sul futuro dell’Europa ha toccato, che in larga parte coincidono con le esigenze sopracitate. E sarebbe anche un bellissimo modo di omaggiare la memoria di David Sassoli, che della Conferenza è stato uno dei più appassionati sostenitori. La Convenzione, così, trova nei principi stessi del nostro modello democratico la propria legittimità e la propria forza.
Serve un momento “forte” come la Convenzione perché altrettanto forti sono gli sconvolgimenti dell’ultimo mese. Non può bastare una “revisione” all’assetto istituzionale dell’Ue. Oltre alle politiche, serve soprattutto la politica. E cioè, bisogna accompagnare gli strumenti a una dottrina europea, a una visione di largo respiro, se vogliamo davvero trasformare l’Ue in una potenza di valori. Anima e cacciavite insieme, dunque, anche in Ue, per difendere il nostro ruolo nel mondo, proteggere le persone e rafforzare le nostre democrazie.
Questo rafforzamento non può prescindere da regole più efficaci per salvaguardare i nostri valori all’interno dell’Unione stessa. Non possiamo essere potenza di valori se non siamo coerenti con essi: è necessario introdurre meccanismi per bloccare e sanzionare efficacemente i paesi membri che li mettono in discussione, anche estendendo a tutti i fondi europei il criterio di condizionalità introdotto da Next Generation Eu, che vincola l’effettivo stanziamento delle risorse al rispetto dei principi dello stato di diritto.
Ma l’anima ci impone anche di porci domande scomode. I valori europei di democrazia e apertura, infatti, non sono messi sotto attacco solo dalle ambizioni di Putin, ma anche da trend politici, demografici ed economici con i quali è ora di confrontarci. Come reagire all’aumento dei regimi autocratici, che negli ultimi anni sono tornati a superare in numero le democrazie? Su che basi siamo disposti a confrontarci con loro? E quali sono le linee rosse, che non possiamo superare se non vogliamo tradire i nostri valori? Né l’isolazionismo, né il cinismo sono compatibili con l’identità europea: serve una risposta nuova e distintiva.
E che risposta dare al diffondersi di modelli economici che mettono a dura prova la tenuta delle regole del multilateralismo economico? L’Organizzazione mondiale del commercio è nata in una fase nella quale oltre il 60 per cento del pil globale era generato da economie aperte di stampo occidentale, ma le elaborazioni di Bloomberg ci dicono che nel 2050 questa percentuale scenderà a solo il 26 per cento. Siamo pronti a difendere un modello economico aperto, senza scadere nell’ingenuità che in questi anni ci ha esposto alla concorrenza sleale del modello cinese, fatto di sussidi statali e scarso rispetto per gli standard sociali e ambientali? Come pensiamo di coinvolgere i nostri partner nel disegno di una nuova globalizzazione, che metta finalmente al primo posto la giustizia sociale e la sostenibilità?
Dalla risposta a queste domande passa la difesa della pace e del nostro modello europeo.
La Convenzione europea è il luogo migliore per elaborarla e, così, dotare finalmente l’Unione europea di nuovi strumenti, all’altezza delle sfide globali e dei nostri valori. Oggi abbiamo l’opportunità di scrivere una nuova pagina del percorso di integrazione europea. Abbiamo il dovere di realizzare queste sette Unioni. Noi lo faremo, proponendo alla famiglia progressista europea che questa diventi la nostra missione comune.
L’Italia, come gli altri singoli stati europei, deve assumere la piena consapevolezza di un cambio di epoca che obbliga a decisioni coraggiose, se vogliamo ancora esistere ed essere influenti nel mondo di domani. Quando l’integrazione europea è iniziata il mondo era piccolo, meno di tre miliardi di abitanti. Oggi siamo già a otto. Noi europei eravamo mezzo miliardo su tre e oggi siamo gli stessi mezzo miliardo ma su otto. In quel mondo piccolo eravamo grandi paesi. L’Italia, come la Francia o la Germania. Oggi passiamo da essere grandi paesi in un mondo piccolo ad essere paesi ben più piccoli in un mondo grande. Per essere influenti e capaci di proteggerci nel mondo grande di oggi dobbiamo fare la scelta di unirci. Solo così saremo domani abbastanza grandi, insieme, da essere influenti come lo erano nel secolo scorso i singoli paesi europei da soli. Se seguiremo le sirene dei sovranisti e dei nazionalisti, se non ci uniremo definitivamente, se non completeremo queste sette Unioni, ci toccherà un futuro da piccoli paesi, ininfluenti, obbligati a metterci sotto la protezione altrui per sopravvivere. La guerra di Putin ha tolto ogni dubbio e ogni alibi. Dobbiamo scegliere il nostro futuro e quello dei nostri figli. Ora.