l'intervista

"Chi ha scommesso su Putin ora dismetta ogni ambiguità". Parla il presidente del Copasir

Valerio Valentini

"C'è una differenza tra alleati e partner". Le sbandate filorusse di Salvini e Conte? "Non giudico. Dico però che non aver compreso l'involuzione autocratica e impaerilaista di Mosca e Pechino è stato un errore. Bisogna prenderne atto, e invece vedo ancora residi di doppiezza". Il colloquio con Adolfo Urso, il meloniano a capo del Comitato parlamentare sui Servizi segreti

C’è un esercizio disonesto, dice. “Quello di giudicare col senno del poi dichiarazioni di quattro o cinque anni fa”. E però c’è un dato da riconoscere: “Che l’invasione dell’Ucraina impone, una volta per tutte, di dismettere ogni ambiguità. Lo dico anche a chi, tra le nostre imprese, abbia la tentazione di aggirare le sanzioni”. Non vuole lasciarsi trascinare nella polemica spicciola, Adolfo Urso. “Non sta a me dare patenti di buona condotta diplomatica”, sorride il senatore di Fratelli d’Italia. “Tanto più per il ruolo che ho”. E però, proprio in virtù di quel ruolo, proprio per l’essere il presidente del Copasir, il Comitato parlamentare che si occupa dei Servizi segreti, ci tiene a indicare una linea di distinzione solo apparentemente banale: “E’ la distinzione tra alleati e partner”. E’ questa, la linea di confine tra ciò che è opportuno e ciò che non lo è, quando si tratta di relazioni con la Russia o con la Cina. “Perché con gli alleati si condividono valori e prospettive strategiche, con i partner si fanno accordi legittimati dalla  convenienza, ma nella reciproca consapevolezza delle rispettive distanze”.

Se insomma gli si chiede dove sia stata l’anomalia italiana degli ultimi anni, Urso parte da qui. Da qui e da quella che lui definisce una “errata lettura storica”. “Perché c’è stato un momento in cui era utile, perfino doveroso, aprire un canale di dialogo con Mosca e Pechino. Ero a Doha, in rappresentanza del governo italiano, nel novembre del 2001, quando la Cina ottenne l’ingresso nel Wto. La minaccia universale era quella del fondamentalismo islamico, allora, e si credeva che l’apertura al libero mercato di certi paesi avrebbe portato con sé anche diritti e valori democratici. Anche con la Russia l’assunto è stato simile, in quegli anni. Che sono gli anni di Pratica di Mare, non a caso. L’errore è stato però nel non comprendere che quel processo non era scontato: e che infatti da almeno un decennio, con l’ascesa al potere di Xi Jinping da un lato e l’avvio delle ostilità verso l’Ucraina dall’altro, Cina e Russia sono regredite verso un’involuzione autocratica e imperialistica. Non adeguare di conseguenza la nostra postura nei loro riguardi, ha indotto alcuni leader, alcuni paesi, a scelte sbagliate”.

L’Italia le ha commesse anche in tempi recentissimi, con il governo gialloverde affascinato dalla Via della Seta. “La firma di quel memorandum è stato l’episodio più eclatante di quello smarrimento, tanto più grave in quanto gli avvertimenti da parte dei nostri alleati americani erano stati palesi. Ricordo la seduta del Copasir, presieduto allora da quel Lorenzo Guerini che ora è ministro della Difesa, in cui ci confrontammo con il premier Conte, il che forse valse a evitare ulteriori inciampi sul settore delle telecomunicazioni. E ricordo anche che il giorno in cui Xi atterrò a Roma con la sua folta delegazione, io organizzai alla Camera un convegno sulle minacce cinesi”. Insomma “chi voleva capire, aveva gli strumenti per farlo”, riconosce Urso. “E in Italia c’è stata oggettivamente una tentazione diffusa: quella di lasciarsi affascinare da questi regimi autocratici, retti dall’uomo forte, considerati più efficienti delle nostre democrazie, specie in momenti di crisi”.

“E così – prosegue Urso – non si è voluto comprendere, ad esempio, che anche certe relazioni industriali non sono neutre. Perché Russia e Cina usano spesso le imprese che investono all’estero come strumenti di penetrazione e di espansionismo del regime”. Una grande sottovalutazione, dunque. “Ma  ci sono anche oggettive ragioni storiche, va detto. E non credo sia un caso che ad aver avuto maggiori relazioni con Mosca siano stati i due paesi europei, come Germania e Italia, che i cinquant’anni del Dopoguerra li hanno vissuti sulla faglia della Guerra fredda”. 

La guerra di Putin, però, toglie legittimità a qualunque doppiezza. “Credo ci siano in effetti alcuni residui di ambiguità”. Ce l’ha con Matteo Salvini, col M5s? “Non indico colpevoli. Dico che in vari settori della nostra classe dirigente c’è stato chi ha investito in una scommessa che s’è ora rivelata perdente, e in questi casi si fa fatica a rassegnarsi. Ma bisogna prenderne atto, capire che la guerra in Ucraina non è una parentesi nella storia ma una svolta epocale. La speranza che molti coltivavano s’è mutata in delusione, e ora ha assunto oggettivamente i caratteri della minaccia”. E come si reagisce? “Con uno spirito patriottico, per così dire. E cioè ribadendo la necessità di una autonomia strategica non solo nella Difesa ma anche nella tecnologia e nelle materie prime, negli asset industriali e alimentari, che noi dobbiamo perseguire nella consapevolezza di una nostra triplice identità: italiana, quindi europea e atlantica”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.