i nuovi aiuti militari
L'invio di nuove armi all'Ucraina agita il centrosinistra
A brevissimo arriverà un nuovo decreto per ulteriori forniture belliche a Kyiv. Il provvedimento non dovrà passare per il Parlamento, ma potrebbe minacciare l'unità di Pd e alleati
“Secondo l’esigenza del governo ucraino, e in accordo con la Nato, ogni giorno è buono”. Il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè conferma. Per l’invio di nuovi armamenti dall’Italia all’Ucraina non è questione di se, ma di quando. Un quando assai vicino. Potrebbe essere domani o all’inizio della prossima settimana, ma una cosa è certa: a brevissimo sarà varato un nuovo decreto interministeriale – tra Difesa, Esteri ed Economia – per mandare nuovi aiuti militari. Anche perché lo stanziamento previsto dal primo provvedimento si è esaurito nel corso delle prime settimane di guerra. La lista completa degli armamenti, così come l’ammontare della nuova dotazione, rimarrà secretata, ma non si può escludere che questa volta ci saranno anche carri armati, blindati, artiglieria e mezzi offensivi.
D’altronde è questa la richiesta che Zelensky ha fatto da Kyiv. Già la scorsa settima dopo la visita nella capitale ucraina, era stato il premier inglese Boris Johnson il primo ad annunciare l’invio di 120 mezzi corazzati e di nuovi missili anti nave. Mentre ieri – riferiva la Cnn citando fonti del Pentagono – gli Usa hanno caricato sugli aerei cargo i nuovi armamenti che in giornata dovrebbero arrivare in Ucraina, una prima fornitura degli 800 milioni di dollari di aiuti annunciati dal presidente Joe Biden due giorni fa. E anche dalla Germania arrivano segnali in questa direzione. “Il nostro paese – ha dichiarato la presidente della commissione Difesa del Bundestag, Marie-Agnes Strack-Zimmermann – deve fornire armi pesanti, compresi i carri armati all’Ucraina”.
La decisione dell’esecutivo italiano non dovrà passare per le Aule parlamentari. Il decreto approvato quasi un mese fa da Camera e Senato consente al governo, fino al 31 dicembre, di fornire armi a Kyiv senza il voto delle Assemblee. Sulla decisione dunque non saranno possibili nuove conte. Tuttavia è probabile che la decisione alzi nuovamente i marosi che sul tema agitano la maggioranza.
Il decreto fu votato da quasi tutti, ma più il conflitto va avanti più i mal di pancia e i distinguo crescono. Dal M5s, dove le diserzioni sulla questione armi sono cominciate fin da subito – con il mancato voto del presidente grillino della commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli –, alla Lega salviniana novella pacifista, si prevedono scossoni.
Ma anche a sinistra l’unità potrebbe cominciare a scricchiolare. Non c’è solo l’improbabile presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo che continua a definire la fornitura di aiuti militari “una catastrofe”. Ieri è nata anche la linea De Luca-Fassina. “Biden darà altre armi all’Ucraina. L’obiettivo degli Usa non sembra la pace, ma far cadere il regime di Putin”, diceva il governatore dem della Campania. Mentre dalle colonne del Manifesto il deputato di Leu sosteneva in pratica che il conflitto si fermerebbe subito se gli americani non desiderassero in realtà un regime change. Sul tema pesano poi certamente anche le parole di Papa Francesco. “Capisco i governanti che comprano le armi”, ha detto, “ma non li giustifico”.
Nel Pd si predica comunque ancora unità. Ma nel partito ci sono tante anime. Se ne sono accorti tutti mercoledì quando Repubblica ha pubblicato le dichiarazioni della presidente dell’assemblea del partito Valentina Cuppi che sulle armi eludeva così la domanda: “Non saremmo dovuti arrivare al punto di scegliere se mandarle oppure no”. Enrico Letta lo sa. Il segretario dem sino ad oggi ha tenuto dritta la barra del suo partito su una postura netta, saldamente atlantista, forte anche della consapevolezza che sarà lui a decidere le liste elettorali, ma al Nazareno non mancano le preoccupazioni. Ci sono tanti, troppi silenzi parlanti. Da Andrea Orlando a Giuseppe Provenzano. Il segretario ha capito che era il momento di offrire una concessione, un risarcimento a sinistra. Per farlo ha scelto il tema forse più giusto. Non sulle armi, ma sull’altra parola di questa guerra: il gas. Facendosi portavoce del malessere di tanti, ha dichiarato di nutrire “moltissimi dubbi” sull’accordo siglato al Cairo tra Eni e l’egiziana Egas per la fornitura di 3 miliardi di metri cubi l’anno di gas naturale liquefatto. La firma ha avuto un tempismo sfortunato. È arrivata nella stessa settimana in cui l’Egitto ha rifiutato di fornire gli indirizzi degli agenti considerati gli assassini di Giulio Regeni, impedendo di fatto la celebrazione del processo.