nostalgie
Quando lo stalinismo si traduce nel putinismo
Perché Canfora è il primo a praticare la semplificazione che denuncia da sempre
L’ultimo Canfora ingloba il precedente. Illustrando a una scolaresca della sua città il tema classico delle false notizie, ha sottolineato che non parlava delle singole notizie (e giù esempi truffaldini), ma della presentazione stessa degli eventi, in questo caso della guerra. “Se riesco a imporre l’idea che c’è un solo colpevole che bisogna demonizzare, ho vinto la partita”. Indossando le vesti di Lapalisse ha aggiunto che “nessuna guerra ha mai avuto una sola origine”. L’obiettivo era la convinzione che domini oggi una acritica demonizzazione di Putin e della Russia.
“Non vedo nello schieramento politico del nostro paese forze capaci di dire ‘voglio capire’”. Dispiace che non le veda e non saremo noi a illuminarlo: se prima in effetti ne sapevamo poco, ormai, dopo un mese e mezzo dall’invasione siamo inondati di ogni sorta di analisi e di dati. Se Canfora non li vede non è per ignoranza, ché è uomo colto e informato, ma perché non sa e non vuole vederli, praticando lui da tempo la semplificazione che intende denunciare: in questo caso la causa della guerra è l’estensione della Nato, l’“accerchiamento” cui è stata sottoposta la Russia. Inutile dunque fare l’ennesima lezioncina di storia della Nato. Mettiamo invece che estensione e accerchiamento ci siano stati, e proseguiamo. Intanto, ci spieghi colui-che-vuole-capire che nesso ci sia tra l’eventuale accerchiamento e l’invasione. Ci dica se l’accerchiamento spiega (e insomma giustifica…) invasione, bombardamenti, sevizie, desertificazione. Ce lo spieghi, ce lo dica. Sarebbe ora che questi putiniani lo dicessero, smettendo di deprecare le distruzioni, epperò epperò…
Ma poi, in quel presunto accerchiamento che peso può avere il fatto che l’eventuale adesione alla Nato o all’Ue sia deliberata democraticamente? Forse è questa democratizzazione – quali ne siano limiti e distorsioni – che spaventa Putin. Il dettaglio è essenziale, giacché con una certa coerenza Canfora non fa mistero di credere assai poco nella democrazia. Anni or sono, per iniziativa di un autorevolissimo storico francese, Jacques Le Goff, alcuni tra i maggiori editori europei decisero di pubblicare una serie di volumi sull’Europa. A Canfora fu affidato il volume su La democrazia. Il libro fu pubblicato come previsto; solo l’editore tedesco, Beck, lo rifiutò, spiegando che concedeva troppo allo stalinismo, tra l’altro non nominando nemmeno il gulag. Censura parecchio goffa, alla quale Canfora rispose con una dotta postilla all’edizione italiana, regolarmente pubblicata da Laterza. In effetti, gulag a parte, il testo tradiva una fascinazione della Costituzione sovietica del 1936 che era sì consueta tra gli antifascisti del tempo, ma che ora, dopo settant’anni, aveva un altro sapore.
L’Unione sovietica, “quell’immenso laboratorio che una falsa storiografia oggi riduce a una specie di gigantesco campo di detenzione” (p. 256) aveva prodotto un testo costituzionale di prim’ordine, che dava priorità all’organizzazione sociale. Su diritti e rappresentanza Canfora non si soffermava, né vedeva a est “la scissione tra costituzione scritta e costituzione ‘reale’” che invece gli sembrava evidente in occidente, ad esempio nell’Italia antifascista dove agrari e mafia armarono il bandito Giuliano. Qui è la base del suo stalinismo, che oggi è tradotto di peso nel putinismo: una democrazia che si risolve nella Realpolitik, in cui l’assetto europeo del Dopoguerra è solo spartizione, e le “elezioni apparenti” ne sono il prodotto, in Cecoslovacchia come in Italia, dove nel 1948 vinsero gli “aiuti alimentari” degli americani (virgolette nel testo). Nei decenni seguenti la democrazia procedette di manipolazione in manipolazione, suggerendo a Canfora di “considerare la vicenda dei sistemi elettorali europei nel secondo Dopoguerra come una progressiva demolizione del suffragio universale” (p. 321).
Ad un certo punto Canfora spiega che dopo la vittoria su Hitler i “neogiacobini bolscevichi” furono tentati di seguire la via aperta un tempo dai francesi, consistendo nell’esportare il proprio modello nei paesi satelliti, “suscitando in questi – come nell’Europa dominata da Bonaparte – un rifiuto rivelatosi alla fine incontenibile” (p. 419). Ci possiamo domandare se quel rifiuto non sia all’origine della resistenza ucraina. Ma è un rifiuto non tematizzato né da Putin né dall’emulo barese. Paradossalmente ma molto astutamente, Putin definisce nazisti i resistenti ucraini. Astutamente, perché termine e concetto, immediatamente comprensibili agli occidentali, producono in loro un corto circuito mentale, un brivido, trattandosi del “male assoluto”.
Un male contro il quale russi e occidentali hanno combattuto insieme. Canfora non se la sente di dire che i democratici italiani sono nazisti, e allora voilà, con un colpo da imbonitore tira fuori dal cilindro Giorgia Meloni, che non c’entra proprio nulla, ma che essendo culturalmente e politicamente all’opposizione funge bene da capro espiatorio. La definisce “neonazista nell’animo” (sarebbe?) e dunque ben contenta di schierarsi con i nazisti ucraini. Da quando è nata, si discute in che misura Meloni sia fascista – e lei è da tempo impegnata a smentirlo – ma nazista poi... Eppure anche in lei un brividino deve essere corso lungo la schiena, perché invece di lasciar perdere le esternazioni del barese, si è parecchio adontata e ha minacciato fuoco e fiamme.