Vive la France! Ora tocca a noi. La sveglia (europeista) di Brunetta al centrodestra italiano

Renato Brunetta

Difesa, energia, nuove regole di bilancio. L’Europa non è un orpello. Il sostegno di Salvini a Le Pen è un problema per la coalizione, così come il silenzio di Meloni. Non c’è interesse nazionale fuori dall’Ue 
 

"Non sono più il candidato di uno schieramento, sono il presidente di tutte e di tutti. Alla rabbia e al disaccordo darò una risposta”. Dai Campi di Marte dove ha festeggiato la rielezione, Emmanuel Macron ha promesso alla Francia: “Nessuno sarà lasciato indietro. I prossimi cinque anni non saranno una continuazione di quelli precedenti. Si apre un’era nuova. Dobbiamo liberare le forze creatrici, culturali, imprenditoriali. Dobbiamo promuovere l’invenzione collettiva di un metodo rifondato, al servizio dei giovani, del paese”. 
Insieme al presidente, il popolo francese ha di nuovo scelto l’Europa. Era il 2017 quando Macron, nel celebre discorso alla Sorbona, evidenziò quale fosse l’opzione: “Potete decidere di lasciare a ogni elezione un po’ più di spazio ai nazionalisti, a quanti detestano l’Europa e, tra cinque, dieci o quindici anni ce li ritroveremo anche nell’Ue, più potenti. O potete scegliere di assumervi le vostre  responsabilità, ovunque, e di far avanzare questa Europa prendendone tutti i rischi: tocca a noi farlo, tocca a noi perché le cicatrici che segnano il nostro continente sono le nostre cicatrici”.

    
Cinque anni dopo – dopo una pandemia, dopo una drammatica crisi economica e sociale, nel mezzo di una nuova guerra che scuote le coscienze di tutti noi e ipoteca pesantemente il nostro futuro – la seconda vittoria di Macron appare con ancora maggior evidenza come una decisione epocale da parte della Francia: la decisione di far avanzare questa Europa. Un’Europa che non è più quella del 2017 – sangue, sudore e lacrime, parametri rigidi, austerity - ma quella del Next Generation Eu, capace di indebitarsi per raccogliere sui mercati 750 miliardi di euro e destinarli ai 27 Stati membri per la ripresa e la resilienza. Un’Europa che può e deve crescere ancora, dimostrandosi all’altezza delle sfide del presente.

  
È già tutto scritto. Ripartiamo dalla strada indicata da Macron nel 2017: “Sei sono le chiavi della sovranità futura dell’Europa. La prima chiave, fondamento di ogni comunità politica, è la sicurezza. (…) In materia di Difesa, il nostro obiettivo deve essere quello di raggiungere una capacità di azione autonoma europea, complementare alla Nato”. Allora la minaccia più grave era il terrorismo, nelle forme tradizionali e in quelle cyber. Oggi il conflitto russo-ucraino, con le sue atrocità, ripropone urgentemente l’esigenza di una cultura geostrategica, di un budget e di un esercito comuni. 

    
Cinque anni fa Macron richiamava l’obiettivo della transizione ecologica e accennava alla creazione di “un mercato europeo dell’energia” che avrebbe dovuto accelerare l’investimento sulle interconnessioni tra i Paesi europei. Oggi questa necessità è diventata impellenza, insieme all’obbligo di guardare al Mediterraneo e all’Africa per diversificare le nostre fonti di approvvigionamento e ridurre o azzerare la dipendenza energetica dalla Russia.

    
Al Consiglio europeo informale di Versailles del 10-11 marzo, voluto proprio da Macron, la spinta nella direzione di una maggiore integrazione europea è stata già palese. A breve si capirà se l’esito finale sarà quello di un secondo Next Generation Eu finalizzato a finanziare un rinnovato impegno dell’Unione, stavolta rivolto all’hard power e all’autonomia strategica dell’Ue su difesa, cybersicurezza, energia, clima e tecnologie. Oggi la Francia ha la responsabilità storica di portare a compimento il proprio semestre di Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea – mancano solo cinquanta giorni lavorativi alla sua conclusione, il 1° luglio – ponendo le basi per l’esercizio di un’autentica sovranità europea: ovvero – per citare il presidente Draghi il giorno della firma del Trattato del Quirinale, il 26 novembre 2021 – “la capacità di disegnare il futuro come vogliamo noi, attraverso una gestione condivisa delle sfide comuni”. Sappiamo che da qui alla fine del semestre francese ci attendono scadenze molto importanti: la presentazione di un nuovo piano per l’autonomia energetica, Repower Eu a metà maggio (e l’auspicabile adozione della proposta italiana di un price cap sull’importazione di gas dalla Russia); la sua discussione al Consiglio europeo straordinario il 30-31 maggio; una possibile revisione dei Pnrr nazionali per dare priorità ai progetti necessari per ridurre il gap di autonomia energetica, soprattutto dalla Russia. E, infine, la presentazione da parte della Commissione delle prime formali proposte di revisione delle regole fiscali europee.

   
Ci sono puntelli importanti che sostengono questo disegno complessivo. Il Trattato del Quirinale è lo strumento politico che permette di rafforzare la cooperazione tra i nostri due paesi (e di superare storiche frizioni) proprio su difesa, energia e clima, affiancandosi al Trattato franco-tedesco di Aquisgrana del 2019 e potenziando nei fatti il nucleo centrale dell’Ue. Il nuovo mandato a Macron ci offre una ampia area di compartecipazione alle politiche europee, partendo dal parallelismo dei meccanismi fra i due Trattati di cooperazione. 

   
Nella triangolazione tra Francia, Italia e Germania sta il propulsore della nuova Europa, anche dal punto di vista delle regole di bilancio
. L’asse tra Macron e Draghi per una riforma del Patto di stabilità e crescita, esplicitato con l’intervento dei due leader sul Financial Times il 23 dicembre 2021, è destinato ora a riproporsi con forza: se prima la flessibilità sollecitata sugli investimenti per la crescita serviva a garantire la ripresa europea a lungo termine, adesso appare indispensabile per la stessa salvezza dell’economia del vecchio continente. Il Patto di stabilità è ormai un feticcio dal valore apotropaico: norme scritte venticinque anni fa, prima della crisi finanziaria e prima della pandemia, inasprite dieci anni orsono con drammatiche conseguenze, e disapplicate ormai da due anni perché non in grado di supportare l’Europa nel momento in cui le politiche fiscali servirebbero di più. Non a caso, fra qualche settimana sarà quasi inevitabile confermarne la sospensione anche per il 2023.  Eppure, il passaggio da un modello di “fiscal regulation” alla tedesca basato sull’automatismo delle regole e su un marcato decentramento decisionale – rispetto a uno di “fiscal capacity” alla francese – imperniato su scelte discrezionali, flessibili e accentrate di politica economica – sembrava già all’inizio degli anni Duemila un punto di equilibrio non duraturo. Lo riconosceva il compianto Jean-Paul Fitoussi, nel suo “La règle et le choix”, nel 2002: “Occorre urgentemente ritornare, con riforme pragmatiche e graduali ad una forma di governo in cui le scelte dominano le regole. (…) Rimasta in mezzo al guado, (…) l’Europa appare oggi come un luogo vuoto della sovranità, un governo delle regole e non della scelta (….) per dirla in una frase, la governance di uno spazio ha bisogno di vera sovranità”.

  
Anche la Conferenza sul futuro dell’Europa – finora una incompiuta – si carica di senso nel momento in cui la posta in gioco alternativa è la disintegrazione dell’Ue. Le istituzioni sono come organismi viventi: non possono restare immobili. Evolvono o regrediscono. Oggi, dopo le urne, Macron potrebbe riproporre integralmente le sue parole del 2017 riferite alla nascita dell’Europa: “L’idea ha trionfato sulle rovine, il desiderio di fraternità ha trionfato sulla vendetta e sull’odio.  Fu la lucidità dei padri fondatori a trasformare questa lotta secolare per l’egemonia europea in cooperazione fraterna o in rivalità pacifica. Dietro alla Comunità per il carbone e l’acciaio o al mercato comune si trovava la promessa di pace, prosperità e libertà che ha attraversato la nostra storia”.

   
Ecco, domenica il popolo francese ha scelto l’integrazione contro la disintegrazione, l’europeismo al posto del sovranismo, l’impegno per la pace alla guerra riproposta ferocemente nel nostro continente dalla Russia di Putin. 

  
Adesso tocca a noi.

   
Tocca a noi perché il risultato francese si proietta nella nostra vita pubblica e s’impone come un nuovo paradigma politico, chiamando i partiti ad assumere una responsabilità storica. Il centrodestra deve decidere se continuare a proporsi come potenziale maggioranza di governo senza uscire dall’ambiguità di un sostanziale scetticismo o, peggio, ostilità nei confronti di una compiuta integrazione europea. Nel mondo di oggi, con lo scenario internazionale rivoluzionato dalla guerra in Ucraina e dalla pandemia, l’Europa non è un orpello da indossare o da nascondere a seconda delle convenienze del momento. E’ una scelta di base, centrale e dirimente, della proposta politica.

  
La piena adesione di Matteo Salvini al progetto sovranista di Marine Le Pen, ribadita nel commento a caldo del voto, pone alla coalizione una pregiudiziale sempre più difficile da sormontare. Non meno privo di ambiguità è il silenzio di Giorgia Meloni, quasi che la vittoria di Macron su Marine Le Pen ponesse una riflessione molto ponderata prima di scegliere da che parte stare. Ma l’idea di un primato dello stato sull’Unione e della legge nazionale su quella sovranazionale  – idea sintetizzata nell’ambiguo vessillo dell’“Europa delle nazioni” – condanna l’Ue all’incompiutezza di un modello intergovernativo che è incompatibile con le scelte di politica fiscale, energetica, estera e militare a cui i governi sono chiamati. 
Senza una compiuta integrazione in questi ambiti, lo ricordavano sia Enrico Letta sia Mara Carfagna su queste pagine, è ormai evidente che nessuno stato europeo in futuro sarà certo di poter garantire ai propri cittadini i diritti politici, economici e sociali sviluppati negli ultimi settant’anni, sintesi delle tre culture da cui l’Europa nasce, quella liberale, quella cristiana e quella socialista. La cosiddetta “Europa delle nazioni”, in altri termini, è destinata ad avere come unica scelta autonoma possibile quella della potenza (non europea) dominante dalla quale farsi proteggere, e di cui giocoforza adottare il modello culturale di riferimento, con buona pace dell’illusorio ideale sovranista da cui nasce.

  
Ha ragione Antonio Tajani a sottolineare che “il populismo perde, ma cinque anni di presidenza hanno reso troppo forti le estreme. Per costruire il futuro – è la logica deduzione del vicepresidente del mio partito – l’Ue ha bisogno di un centrodestra europeista, popolare, liberale e cristiano”. “Se no, no!”, aggiungiamo noi.

  
Non sono tempi per ipocrisie o tatticismi elettorali. La crisi geopolitica, che torna a dividere il mondo in due blocchi, chiama la coscienza della classe dirigente al coraggio di riconoscere che scegliere la democrazia oggi vuol dire promuovere l’Europa, che della prima è la naturale evoluzione e il pieno compimento. Questa scelta non può essere allo stesso tempo proclamata a parole e smentita da equivoci e doppiezze, né può essere il frutto di una valutazione di convenienza fatta a posteriori, come l’ha intesa il leader del Movimento cinque stelle, Giuseppe Conte, che, dopo aver esibito un’improbabile terzietà nella sfida dell’Eliseo, ieri ha scoperto che la rivale di Macron era “una destra di ispirazione xenofoba”. Sul carro dei vincitori non c’è più spazio per l’opportunismo, perché i vincitori oggi coincidono con i più responsabili.

  
Quanto questo sia vero lo dimostrano le lacerazioni e i dubbi che dividono il centrosinistra su temi decisivi come le responsabilità della guerra, il diritto dell’Ucraina a difendersi, l’adesione alla Nato, il primato della democrazia liberale. Le preoccupazioni elettorali del Pd scontano dolorosamente le contraddizioni di un’alleanza innaturale tra riformisti e massimalisti, tra atlantisti e nostalgici del comunismo, tra difensori della democrazia rappresentativa e inguaribili fan del populismo.

  
Lo scenario internazionale richiede oggi scelte precise per preservare le conquiste dei nostri padri, dalla liberazione alla ricostruzione, scelte che una parte del sistema politico, per convinzione o per convenienza, fatica a compiere, da ambo le parti degli schieramenti. Occorre, allora, prendere atto che la democrazia bipolare, costante incompiuta della Seconda Repubblica, è morta dentro il sistema dei partiti fondati sulle ideologie e non risponde a ciò che si muove fuori da essi. Vale anche per la Francia, come abbiamo visto: le antiche divisioni tra destra e sinistra non rappresentano più nulla. E in Italia i più recenti vincoli di appartenenza e di alleanza tra le forze politiche aprono divisioni difficilmente ricomponibili nell’attuale sistema, e rischiano di togliere al nostro paese forza propulsiva nella costruzione della nuova Europa che si sta definendo dopo la rielezione del presidente Macron.

  
Una legge elettorale che non aiutasse il quadro politico a dismettere questo bipolarismo “bastardo” e a riposizionarsi attorno alle nuove opzioni strategiche qui descritte sarebbe un imbroglio per i cittadini e porterebbe qualunque maggioranza verso l’ingovernabilità e la paralisi. Per questo il voto francese è una sveglia anche per noi. Da una parte sola, dalla parte dell’Europa.