Il racconto dal corteo

Il 25 aprile di Milano, la piazza divisa tra bandiere rosse, dell'Ue e dell'Ucraina

L'importante è resistere (ma come farlo non importa a nessuno)

Francesco Gottardi

Il 25 aprile milanese è un mosaico di ideologie senza dialogo. L’antifascismo il primo valore, l’antiatlantismo il secondo. E l’Ucraina? “Si difenda da sé”. In corteo fischi e contestazioni allo spezzone del Pd. E c'è chi dice che la bandiera dell'Unione europea "è una vergogna"

È stato tutto il contrario di tutto. 25 aprile e altrettanti mondi. Marasma di bandiere: Unione europea e sovietica, pace e Nato, Israele e Palestina. Poi le più attese: Anpi e Ucraina, con molti dei primi che dicono “no, a Kyiv non ci sono partigiani. O comunque non vanno fomentati con le armi”. L’apoteosi dello scollamento in Piazza Duomo, a cerimonia già avvenuta. Sul palco si scatena ‘Fischia al vento’. E gli ucraini la fischiano. Incazzati neri. “Questa è ‘Katyusha’, canzone dell’Armata rossa: non possiamo far finta di niente”. Anche se nel frattempo è diventato uno storico pezzo della Resistenza, qui da noi. Beneficio del dubbio. Ma il pomeriggio milanese si era aperto sulle note dell’inno dell’Urss, fra sporadici vessilli del Donbas e striscioni “contro l’imperialismo dell’Alleanza atlantica” – contro Putin neanche l’ombra. E allora diamine.

 

Il vincitore della giornata è Beppe Sala. Cerchiobottista con le mille anime del corteo nazionale – “non focalizziamoci su queste piccole deviazioni, la discussione è il sale della democrazia” – e implacabile con tutti gli altri: “Basta ambiguità sull’invasione russa!”. Ne ha per Conte, Salvini, Meloni. Perfino Orsini. Il sindaco di Milano lascia il palco nell’ovazione generale. Quasi da pater patriae, alla fine, quando Irina Yarmolenko, consigliera comunale di Bucha, chiede il permesso di abbracciare il primo cittadino. È giunta in Italia per testimoniare le devastazioni della sua terra: “I russi non vogliono annientare solo il nostro popolo e le nostre case. Ma soprattutto la nostra identità. Tutti potete unirvi a noi. Aiutateci”. Dieci minuti di accorato discorso, seguito dal racconto di una connazionale della comunità italiana.

 

Momenti solenni, applausi di Piazza Duomo. Ma mai infuocati come al parlare di Landini e Pagliarulo, sindacati e Anpi, che insistono sul ruolo storico di operai e resistenti. Come ogni 25 aprile da 77 anni a questa parte, senza distinguo per il 2022, mentre l’Europa ripiomba nella guerra. Anzi sì: “Quella di Putin è un’invasione inqualificabile, ma non si ferma con le armi”. Tripudio. Né con la Russia né con la Nato, ça va sans dire. E meno male che Gramsci “odiava chi non parteggia”. Sintetizza un militante: “Noi parteggiamo per i lavoratori”, bentornato Sessantotto.

  

Il grande sconfitto invece è Enrico Letta. Il segretario dem era in una posizione di lose-lose, a onor di verità: disertare il corteo nazionale sarebbe stato vilipendio di bandiera – e di partito –, prendervi parte a fianco dei centri sociali offriva il fianco alle invettive. “Fuori il Pd dal 25 aprile”, lo slogan a ripetizione. “Questa è casa nostra, la Costituzione è casa nostra, l’antifascismo è casa nostra”, ribatte Letta.

 

E allora si guardi attorno. La camionetta del Pd, fra i 50mila partecipanti che da Corso Venezia hanno manifestato fino al Duomo, era lontano dagli ucraini, lontano dalla brigata ebraica – lì c’erano Azione e +Europa. Ma a due passi dal punto più sinistro della moltitudine: un manipolo no Nato, no vax, no green pass. Praticamente una riedizione del 9 ottobre romano, praticamente affini a chi assaltò la Cgil. “Meglio girare largo”, dice qualcuno. “L’importante è resistere”, sorvolano altri. Anche se ognuno lo fa a modo suo. Poveri partigiani. Di ieri, di oggi e di domani.