Il paradosso del gatto
Più che la linea filorussa di Schröder, Conte ha la linea di Schrödinger
È un po' come il proverbiale esperimento del fisico austriaco: la politica estera del M5s può essere simultaneamente putiniana o antiputiniana, europeista o sovranista, macroniana o lepenista, tutto e il suo contrario
Sbaglia chi pensa che il Movimento cinque stelle abbia, sotto sotto, la linea filorussa di Schröder; piuttosto, ha la linea di Schrödinger. Come il gatto al tempo stesso vivo e morto del proverbiale esperimento mentale del fisico austriaco, la sua politica estera può essere simultaneamente putiniana o antiputiniana, europeista o sovranista, macroniana o lepenista, trumpiana o bideniana, atlantica o eurasiatica. Uno stato di sovrapposizione quantistica che perdura fino al momento in cui qualcuno non si prende la briga di aprire la scatola d’acciaio e compiere una semplice osservazione, come scienza comanda, intimando al gatto di metter fuori il muso. Eppure, c’è voluta una guerra per convincere una parte della nostra informazione che era ora di dare quanto meno una timida sbirciatina nella scatola. Ho dovuto ascoltare tre volte l’intervista a Conte di Corrado Formigli, e tre volte non sono bastate a capire quale sia la posizione del M5s sull’invasione russa dell’Ucraina; e lo confesso, ho provato perfino un colpevole moto di simpatia per l’incommentabile Vito Petrocelli, il presidente della commissione Esteri del Senato espulso da Conte in un bel duello tra indecenze simmetriche, il quale ha ricordato una banale (mezza) verità: “Vergognoso… Ho la stessa posizione in politica estera del governo Conte I e del programma con cui sono stato eletto nel 2018, prima che arrivassero il Pd e Draghi”.
È una mezza verità, dicevo, perché il programma di politica estera del 2018 era a sua volta un programma di Schrödinger, o meglio un programma di Orwell, un incredibile avvicendamento di bozze in pdf arbitrariamente aggiornate e riscritte in segreto, in cui tra una versione e l’altra cambiavano non già il carattere o l’impaginazione, ma dettagliuzzi come la collocazione internazionale dell’Italia.
I lettori del Foglio mi diranno: altro che gatto di Schrödinger, tu stai scoprendo l’acqua calda: i grillini da sempre dicono tutto e il contrario di tutto a seconda della convenienza percepita del momento, purché ci sia da raccattare qualche voto o qualche like. E avrebbero ragione, ma solo perché frequentano uno dei pochi laboratori dell’informazione in cui ci si è presi l’incomodo di tirar fuori il gatto dalla scatola quando era urgente farlo: ossia molti anni fa. Ora in tanti vorrebbero inchiodare Conte alle sue elusioni e alle sue incoerenze, e con un paio d’anni di ritardo gli chiedono di far chiarezza sulla surreale parata di militari russi ai tempi del Covid; perfino Lilli Gruber – un tempo cerimoniera, visverbi gratia, di puntate-marchetta per il figlio di Casaleggio – fa la voce grossa e dice a Conte che non può permettersi di fare il pesce in barile, o il gatto in scatola, sul ballottaggio Macron-Le Pen.
Questa intrepidezza sospettamente tardiva si presta almeno a due considerazioni: la prima, moralistica e perciò poco interessante, è che per alcuni mezzi d’informazione l’ideale maramaldesco dell’inchiesta giornalistica è il rapporto Kruscev, un bel dossier post mortem. Hanno aspettato la morte politica di Conte, scaricato dai suoi padrini a est e a ovest, come via libera per procedere. La seconda, purtroppo, è più inquietante. Il fatto che il M5s abbia potuto attraversare illeso due campagne elettorali, quella del 2013 e ancor più quella del 2018, senza che nessuno obbligasse i suoi esponenti a scoprire le carte, e a dire per esempio se volevano uscire o meno dalla Nato e dall’euro (avevano dichiarato e non dichiarato, smentito e non smentito entrambe le cose), rivela non tanto la viltà della grande stampa, la corruzione dei talk-show o l’efficacia del codice Rocco (Casalino), quanto la miscela di infantilismo irresponsabile, frivolezza e provincialismo che affligge la cultura di una parte dei nostri ceti dirigenti.
Erano pronti, a cuor leggero o perfino festante, a dare le chiavi di un paese del G7 in mano a un movimento dalle affiliazioni e infiltrazioni internazionali opacissime, perché davano per scontato che non ci fosse in ballo niente di serio, che il mondo sarebbe rimasto immobile, e che sarebbe stato tutto sommato indifferente avere un putiniano o un europeista alla guida dell’Italia. Ci sono volute una pandemia devastante e una guerra d’invasione per ricordarci che non eravamo soli nel mondo, un mondo che (eppur) si muoveva.
Mi capita spesso, in questi mesi, di ripensare a un bell’intervento parlamentare del compianto Antonio Martino. Era il 1998, ai tempi del governo D’Alema, quando i temi in discussione erano Ocalan e il Kosovo, e quando il centrodestra sembrava avere – si era in epoca pre putiniana – una sola voce atlantista in politica estera: “La verità è che questo governo, ancora più di quello che l’ha preceduto, è sorretto da una maggioranza in cui coesistono linee contrapposte di politica estera; i colleghi mi perdoneranno se ripeto considerazioni che ho già avuto modo di svolgere in altre occasioni. La politica estera, onorevole D’Alema, non è uno dei compiti dello stato, la politica estera è lo stato, il suo modo di essere come soggetto di relazioni internazionali”. La politica estera è lo stato, è il volto dello stato, ma vent’anni dopo eravamo troppo concentrati sulle interiora e sui rodimenti di fegato per preoccuparci di dover mostrare al mondo un volto. Se siamo finiti così, e se abbiamo rischiato di finire peggio, è perché il sistema dell’informazione ha disertato, non si è degnato di forzare la scatola e costringere il gatto a far capolino. Forse avevano paura di trovarci dentro un gatto moribondo, o di dover replicare in prima pagina, ma stavolta come tragedia, il leggendario titolo-farsa del Male: “Lo stato si è estinto”.