Ecco perché Draghi potrebbe dover prolungare la sua permanenza a Palazzo Chigi
Archiviata l'ipotesi di elezioni a ottobre. La guerra cambia scenari e prospettive. Così al Quirinale studiano il calendario del 2023: la legislatura durerà fino al 23 marzo, poi settanta giorni per le urne (a fine maggio), quindi gli affari correnti. Le grandi nomine e la rata di giugno del Pnrr nelle mani dell'ex banchiere
E’ tutto un incrocio di date, di calcoli da cui discendono previsioni, di conti fatti col calendario alla mano che prefigurano scenari. E sono scenari diversi, quelli delineati nei giorni scorsi tra le stanze di Palazzo Chigi e quelle del Quirinale. Perché se è vero, com’è vero, che di fronte alle fibrillazioni crescenti Roberto Garofoli ha studiato l’eventualità di un precipitare degli eventi a ottobre, fosse anche solo per valutare ogni possibile dinamica e farvisi trovare pronto, al contrario i consiglieri del capo dello stato hanno studiato la via lungo la quale la legislatura possa essere prolungata al massimo, o quantomeno condotta al suo esito naturale, che poi è un po’ lo stesso. Il che consentirebbe, tra le altre cose, che a gestire la decisiva partita delle nomine di Eni, Enel e Poste, sarebbe comunque Mario Draghi. Il quale garantirebbe anche per la rata del Pnrr di giugno 2023.
Non che sia questo, l’obiettivo dichiarato di chi sta sul Colle. Lì, semmai, si rivendica l’osservanza scrupolosa del dettato costituzionale. Il che però, paradossalmente, può segnare comunque un innocente precedente. Nel senso che in Italia, almeno negli ultimi tempi, le legislature finiscono anzitempo anche quando finiscono complete. Solo per stare agli ultimi due casi: la XVII legislatura, inaugurata il 15 marzo del 2013, s’è conclusa formalmente il 28 dicembre del 2017, con la legge di Bilancio del governo Gentiloni appena approvata, dunque con oltre tre mesi e mezzo di anticipo; su quella antecedente, la XVI, iniziata il 29 aprile del 2008, il sipario è calato il 22 dicembre del 2012, e qui la decurtazione è stata di oltre quattro mesi. Situazione significativa, quest’ultima, perché di fatto l’esperienza si chiuse con le dimissioni di un premier tecnico, Mario Monti, alla guida di una maggioranza ampia e trasversale assai logorata da una estenuante convivenza forzosa. Un po’ la stessa condizione di oggi.
Solo che stavolta, e qui starebbe la novità, l’idea che circola tra chi frequenta il Quirinale, e di lì rimbalza nei corridoi dei ministeri e degli uffici di presidenza delle Camere a scandire impegni e scadenze di medio periodo, è di evitare qualunque compressione dei tempi. E dunque, considerando che la prima seduta del Parlamento attuale è avvenuta il 23 marzo del 2018, e contando che il termine massimo per lo svolgimento delle elezioni è di settanta giorni, si arriverebbe dunque a fine maggio. Domenica 28 maggio, se si concretizzasse questo progetto, potrebbe essere il giorno della chiamata alle urne. Significherebbe, già questo, affidare alla diplomazia di Draghi la regia sulla grande tornata di nomine: Eni, Enel, Leonardo e Poste, solo per dire delle più importanti. E poi Enav e Terna, tra le altre: tutte scadenze previste tra fine aprile e inizio maggio. L’effetto indiretto, forse non proprio indesiderato, dell’osservanza precisa della Costituzione, sarebbe insomma un’assicurazione sulla riscrittura della geografia del potere italiano, assegnata all’ex capo delle Bce.
Ma non basta. Perché da quell’ipotetico giorno di elezioni di fine maggio, fintantoché si prolungassero le trattative per la formazione del nuovo governo – l’ultima volta, per arrivare al giuramento del Conte I, ci vollero 88 giorni di pandemonio – Draghi resterebbe in carica per il disbrigo degli affari correnti. E tra questi ce ne sarebbero di decisivi: tipo il conseguimento dei 27 obiettivi del Pnrr, da conseguire entro il 30 giugno, e validi per la terza rata del Recovery, roba da 18 miliardi.
Certezze scritte sull’acqua, ovviamente. Perché su ogni ragionamento grava l’incognita della politica, che s’alimenta delle insofferenze dei partiti di maggioranza che soffrono in questa coabitazione coatta. Matteo Salvini e Giuseppe Conte scalpitano già, e forse dopo le amministrative di giugno le rese dei conti, sia dentro il centrodestra sia nella galassia grillina, aumenteranno ancora le fibrillazioni. Anche per questo, evidentemente, negli uffici del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio s’è consultato il calendario, nei giorni passati. I quattro anni e sei mesi di legislatura necessari alla maturazione del vitalizio scatterebbero intorno al 20 settembre: se si anticipasse la legge di Bilancio, e si ottenesse da Bruxelles il congelamento degli impegni del Pnrr previsto in caso di elezioni, il voto a ottobre non sarebbe impossibile, almeno sulla carta.
Nella pratica, però, l’ipotesi è alquanto temeraria. E lo dimostra anche il fatto che lo stesso Draghi, che a inizio febbraio aveva valutato la convenienza di anticipare la legge di Bilancio a inizio settembre, per metterla al riparo dalle rivendicazioni propagandistiche dei partiti in ansia elettorale, ha accantonato quella suggestione. Perché la guerra, evidentemente, ha stravolto previsioni e tabelle di marcia, e perché le conseguenti pressioni internazionali non possono che portare verso un prolungamento massimo della permanenza di Draghi a Palazzo Chigi.