Il racconto
Dal mezzo anglofono Draghi alle liste di Salvini: ecco l'italiano dei leader
Il professore Cortellazzo dell'Accademia della Crusca racconta la lingua dei politici. Dall'italiano con gli occhiali di Letta all'avvocatese di Conte. Senza dimenticare Meloni "aggressiva, ma non volgare"
Parlano lingue diverse. Ecco perché non si capiscono tra loro. Il governo di unità nazionale è composto da tanti idiomi. Quelli dei leader. Quasi tutti si trovano in maggioranza, eccetto uno all’opposizione. Dietro allo stile, che quasi mai è dolce e novo, si nascondono fratture e fortune. In principio fu il verbo, poi i sondaggi. E allora si capisce anche perché il premier Mario Draghi abbia problemi di comunicazione con gli alleati: lui parla e loro non comprendono. E viceversa. Aborigeno, ma io te che abbiamo da dirci? Fa notizia il bel tacer, come quello di Silvio Berlusconi. L’uomo-rivoluzione del linguaggio in tutte le sue forme conta poche apparizioni pubbliche, ormai, dopo mille battaglie e l’oscar dell’innovatore della S Seconda repubblica. E’ entrato nei libri. Tuttavia, gli altri protagonisti del Bar sport Parlamento tengono il microfono ben acceso.
Oggi e domenica al Teatro Due di Parma si ragionerà sulla lingua italiana. Il festival si chiama “Volgare illustre”. E’ la conclusione di un progetto scientifico. A dirigerlo è Luca Serianni, docente di Storia della lingua italiana alla Sapienza (ma anche socio dei Lincei, della Crusca, dell’Arcadia e dell’Accademia delle Scienze di Torino). In questo viaggio sono stati coinvolti seicento studenti provenienti da ventiquattro licei classici d’Italia. Una delle quattro sezioni riguarda il rapporto fra la lingua e la politica. Se n’è occupato Michele Cortellazzo. E allora la domanda va girata proprio a lui, che è docente di Linguistica e direttore della scuola Galileiana di studi superiori all’Università di Padova, nonché accademico ordinario della Crusca.
Insomma, prof. come parlano i nostri politici? Si può partire da Mario Draghi, l’uomo nuovo del gran cabaret Italia. Com’è l’italiano del presidente del Consiglio? Diretto e rassicurante o piano e così avulso dal contesto da non avere ancora un’imitazione come si deve? Draghi si è scrollato di dosso la patina di mister Whatever it takes?
“Piano. Partiamo dall’ultima domanda – risponde Cortellazzo – in realtà l’esperienza anglofona di Draghi non emerge nel lessico, ma nella struttura frasale e testuale dei suoi interventi. Anzi, Draghi ha espresso pubblicamente le sue perplessità sull’uso di forestierismi quando; il 12 marzo scorso, leggendo un discorso probabilmente preparatogli nella forma definitiva dal suo staff, si è trovato a parlare di smart working e di baby-sitting. Lette queste parole, si è interrotto e si è chiesto ‘chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi’”.
In effetti internet è ancora pieno delle mitologiche sbandate anglofone e albertosordiane dei nostri leader politici. Alcune di queste entrate nella leggenda: da Francesco Rutelli (rivisitato magistralmente da Corrado Guzzanti) a Matteo Renzi (first reaction: shock!).
“Sì, quello di Draghi è un atteggiamento diverso da quello di molti politici che travestono con nomi inglesi soprattutto le azioni che godono di minor consenso (da jobs act a stepchild adoption)”.
Ma come: l’Italia ha chiamato Draghi proprio in virtù, lasci passare la provocazione lessicale, del suo standing internazionale.
“Già, questa posizione critica del premier suona paradossale per un uomo che effettivamente ha trascorso buona parte della sua vita professionale in ambienti in cui vigeva l’inglese”. Esiste però un draghese. “In un certo senso sì. L’esperienza di anglofono emerge nella strutturazione delle frasi e dei testi, che risulta molto più lineare e sobria, molto più legata all’esposizione di fatti di quanto avvenga in altri politici. I suoi discorsi sono piani: certamente un merito, ma anche una colpa, quando la linearità sconfina nella piattezza e nella mancanza di quello spirito empatico che dovrebbe emergere dai discorsi di un leader”.
Allora le rispondiamo così: io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana. E volendo c’è anche la versione spagnola per aficionados. Meloni è Roma. La leader di Fratelli d’Italia spesso nei comizi lascia trasparire, e molto, le origini geografiche. Urla meno, forse, rispetto al passato. E alcune parole sull’Europa e i migranti sembrano – sembrano – più sfumate in confronto a qualche anno fa. C’è un nuovo linguaggio di Meloni che magari va di pari passo anche con la crescita di Fratelli d’Italia nei sondaggi?
“Sì, Giorgia Meloni è romana e ‘se sente’. Usa anche una tonalità spesso fuori dalle righe, anche per trattare temi di limitata rilevanza. Però, l’aggressività che spesso contraddistingue i suoi discorsi non sconfina mai nella volgarità”. Meno male. “Alcune caratteristiche del linguaggio di Meloni sono evidenti. Come la disinvoltura con cui introduce nel discorso parole, e quindi concetti, poco usati dagli altri politici, spesso perché considerati politicamente scorretti, come la richiesta di ‘blocco navale’, o desueti, come il ripetuto riferimento al ‘patriottismo’”.
Di quali lemmi è composto il dizionario meloniano?
“Alcuni linguaggi che la leader mette in campo sono meno immediatamente percepibili”.
Esempi?
“La narrazione di sé che mette in gioco risponde a due archetipi. Quello della guerriera e quello della madre. Una duplicità che le permette di giocare su più tavoli, utilizzando di volta in volta quello al momento più efficace”.
Quindi alla fine è sempre la solita Meloni, nessun maquillage?
“Sì, non c’è oggi un nuovo linguaggio, ma semmai un ancora più abile slalom tra gli ingredienti da lei sempre usati nella sua attività politica. Così oggi può forse smussare i toni più apertamente aggressivi e ansiogeni, non riuscendoci sempre, ma al tempo stesso può rivendicare anche sul piano linguistico la coerenza. Parola chiave della Meloni e dei suoi comportamenti politici”.
Brunori Sas cantava qualche anno fa: “E in fondo dai, parliamo sempre di Salvini: di immigrati e clandestini, ma in un campo rifugiati a noi non ci hanno visto mai”. Canzoni a parte, il leader della Lega ha avuto il merito di andare oltre. E’ diventato per un po’ l’arcitaliano, ma senza le vette imperiture del Cav. Il Papeete sta lì a ricordarci il linguaggio e il corpo del leader del Carroccio, il vicino di ombrellone che voleva far cadere il governo con il Mojito in mano, altro che Toto Cutugno con la chitarra. Professor Cortellazzo, trova che qualcosa ora sia cambiato nell’italiano di Salvini? Insomma anche lui ha avuto un prima e un dopo?
“Salvini ha vissuto nel 2019 un momento ineguagliabile di successo comunicativo, legato alla sua incontestabile presa sul pubblico verificatasi nei social”.
Ah, la Bestia.
“Sì, linguisticamente il successo si è fondato su un alto tasso di aggressività, spesso condito da volgarità, abbinato a un dichiarato continuo riferimento al modo di pensare e di parlare dell’elettore comune”. Si spieghi meglio. “Basti pensare al frequente commento ‘roba da matti’, in riferimento a episodi oggetto di critica e contestazione. E’ stato in quel periodo che Salvini si è rivelato un abile, ma forse cattivo, maestro di lingua per i suoi sostenitori, dei quali ha guidato – va detto, con successo – l’uso linguistico. In direzione dell’attacco aggressivo, e spesso volgare, agli avversari”.
Ma poi c’è stato l’incidente.
“E’ stato travolto dalla spirale inflattiva che ha caratterizzato la sua politica comunicativa, e quindi anche linguistica, che l’ha portato ad alzare sempre più il tiro. Fino a rompere l’elastico che regolava la sua progressione, soprattutto nella comunicazione in prima persona, nei confronti degli avversari, a cominciare dalla ‘sbruffoncella’ Carola Rackete”.
Ora Salvini appare sottotono.
“Ha ripiegato sull’unico espediente dell’accumulazione caotica, che non è un giudizio denigratorio, ma un termine della retorica. Mi riferisco alla successione di diversi elementi giustapposti o coordinati, priva di un ordine prestabilito o riconoscibile”. Certo, le famose liste di Salvini! “Un genere diventato anche oggetto di satira nei suoi confronti. Un caso, tra i mille, in un’intervista a ‘Di Martedì’ di Giovanni Floris: ‘Io ieri ho incontrato gli imprenditori a Torino: commercianti, ristoratori, albergatori, artigiani’”.
Poi c’è il contiano. Il Devoto-Oli della pochette. Il leader degli avverbi. E dell’“interlocuzione” come modo di essere. Il capo del M5s viene dal mondo degli avvocati e delle università. Anche per lui ci sono state due fasi. Tutti lo hanno conosciuto per il suo italiano un po’ ampolloso quando era presidente del Consiglio. Adesso però Conte ha un’altra vita: guida i grillini. Deve farsi sentire all’interno e pungolare il governo, navigare la corrente dei sondaggi.
“Nella rosa dei pesci fuor d’acqua, Giuseppe Conte ha una posizione di preminenza. E’ enorme la diversità tra il populismo scoppiettante e spesso esagitato della comunicazione grillina dei primi anni e l’eloquio dell’avvocato civilista e del professore transitato nella politica, non si può più dire, credo, ‘prestato alla politica’”.
Come parla?
“Utilizza, per consuetudine personale, un registro più alto, soprattutto sul piano lessicale, di quello di molti altri leader con cui si confronta, ma soprattutto di quello di gran parte dei parlamentari e degli attivisti grillini”.
Insomma, lui parla e i suoi adepti non lo capiscono?
“Solo nel momento della lotta alla pandemia Conte ha affiancato al suo italiano avvocatesco un registro retorico più emotivo, con espressioni certamente studiate dal suo staff (‘Stiamo distanti oggi, per abbracciarci con più calore domani’). Ma il registro emotivo veniva incollato al linguaggio che gli è più congeniale, e lo è anche tuttora, in questo momento in cui da figura istituzionale si è tramutato in leader di partito”. Conte parla da premier e non da leader: sta dicendo questo? “La sua vera natura linguistica è quella delle parole chiave della politica di contrasto alla pandemia, ben simboleggiata da sigle e parole come dpcm e ‘congiunti’”.
A proposito di affetti poco stabili nella famiglia rossogialla: Enrico Letta, il prof. tornato da Parigi. La sua lingua con gli occhialini scalda la sinistra? A chi arriva? E’ cioè cosa si aspetta il popolo della sinistra? C’è passione nell’italiano di Letta?
“Belle domande. Allora, certamente c’è passione nell’impegno politico connaturato alla sua persona, al punto da abbandonare il prestigioso ruolo universitario che aveva a Parigi per avventurarsi nel salvataggio del Partito democratico. Che questa passione si trasferisca nella comunicazione è difficile da sostenere. Letta, anche quando parla davanti a pubblici ampi, non perde la sua fisionomia da professore”. E questo è un limite? “Non è detto che sia una scelta sbagliata. Letta ha alle spalle, a parte la parentesi di Nicola Zingaretti, l’esperienza di Pier Luigi Bersani, con la sua creatività popolare del pettinare le bambole, e il fuoco d’artificio dell’innovatore Renzi. Come siano andate a finire queste due esperienze è noto. Siamo sicuri che l’understatement comunicativo di Letta non sia una scelta avveduta, adeguata allo spirito del Partito democratico di oggi e del suo elettorato, una scelta frutto della lezione ricavata dal fallimento dei suoi predecessori?”.
Può darsi. A sinistra e dintorni ci sono anche Matteo Renzi e Carlo Calenda. Partiamo dal primo. La fiorentinizzazione dell’Italia è terminata. L’ex premier conferma di essere bravo nei calembour, nelle invettive e nella battuta a effetto, ma sembra aver finito le parole. E’ davvero così?
“Renzi è stato un interessantissimo innovatore del linguaggio politico della sinistra. Ha cercato di trasferire anche in questo perimetro le novità che da tempo erano entrate in altri settori della politica, su spinta prima di Craxi, poi di Berlusconi: la spettacolarizzazione, la personalizzazione, la teatralizzazione e, ingrediente ancora più nuovo, la narrazione, cioè lo storytelling”.
Una riforma al mese!
“Tutte caratteristiche che ben si adattavano alla facondia toscana di Renzi, abile narratore e intrattenitore incline all’instaurazione di un dialogo con gli ascoltatori o con un interlocutore fittizio. L’indubbia abilità oratoria di Renzi ha avuto grande successo quando la sua figura politica era in ascesa; ora, pur rimanendo intatta l’abilità dell’oratore, l’eloquio torrentizio di Renzi pare proprio avere meno efficacia sul pubblico”.
E Calenda?
“Di lui non mi sono ancora fatto un’idea precisa. Romano come Giorgia Meloni, e anche come Nicola Zingaretti, presenta la facciata sorniona della romanità, e non quella aggressiva e sopra le righe di Giorgia Meloni. Quanto a regionalità, comunque, quella fiorentina di Renzi risulta più attrattiva. Per il resto, le trovate linguistiche di Calenda non paiono essere di quelle che bucano lo schermo e attraggono irresistibilmente gli elettori: tanto per fare un esempio, quanti si sono accorti della sua proposta di costituire un polo della serietà?”.