Dissidi interni
Osservare Genova per capire la crisi del Pd alle prese con l'M5s
Una carica che non doveva essere accettata ha scatenato il putiferio nella coalizione progressista. Ora perché il candidato abbia accettato l’incarico manageriale non sembra un elemento di importanza fondamentale. Più importante capire cosa abbia scatenato il cortocircuito interno al Pd
Genova. Il caso quasi terribile del candidato Terrile parte da Genova ma racconta di una dicotomia, e di un problema, nazionali nel rapporto tra gli alleati del governo Draghi. In sintesi, estrema, si potrebbe riassumere con un quesito: il Pd vuole essere partito di lotta o di governo? Partiamo allora dalla vicenda che nei giorni scorsi ha visto protagonista Alessandro Terrile, avvocato, già capogruppo Pd in consiglio comunale a Genova, capolista per le elezioni comunali del 12 giugno, esponente dell’area che fa capo a un altro ligure, il ministro del Lavoro Andrea Orlando. Terrile ha deciso di accettare la carica di amministratore delegato dell’Ente Bacini, società partecipata in forma maggioritaria dall’autorità portuale, l’autority che governa gli scali genovesi e che alla sua guida ha Paolo Emilio Signorini. Tutto a un mese dal voto amministrativo. Accettare significava (anche) dire sì a un’offerta che non poteva che avere il via libera del numero uno dell’autorità portuale, presidente nominato dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma d’intesa con il presidente della Regione. Significava dunque essere scelti da Signorini, che con il governatore della Liguria Giovanni Toti e con il sindaco Marco Bucci ha certamente un rapporto di collaborazione solido, esplicito. Il candidato Dem ha accettato il posto di amministratore delegato. Senza lasciare da parte la candidatura a consigliere comunale nelle liste del Pd. Così almeno in un primo momento. La nomina sarebbe arrivata alla fine di aprile, la notizia è trapelata dopo la festa del primo maggio. Ed è scoppiata la polemica.
Le prime bordate sono arrivate dalla coalizione di centrodestra, in particolare dalla Lega, ma senza eccessivi clamori. Il vero putiferio è esploso nella coalizione progressista. “Gli attacchi della Lega, del segretario Rixi, quelli del sindaco Bucci me li aspettavo, meno quelli di Sansa e Pastorino”, ha confidato l’ex candidato, riferendosi ai due alleati e animatori della lista rosso-verde, che tiene dentro pezzi della galassia a sinistra del Pd e i Verdi. Ex candidati perché sballottato a destra e sinistra dalle polemiche, alla fine l’avvocato si è ancorato al suo incarico all’Ente Bacini e ha rinunciato alla candidatura in Comune. Sfiancato dagli attacchi giallorossi della coalizione, dove il peso dell’ex sfidante del centrodestra alle ultime regionali, Ferruccio Sansa, ha evidentemente un peso determinate. A Genova qualcuno l’ha definita una Polpetoti avvelenata, a farla meno greve sarebbe una mossa politica del governatore Toti per incrementare ancora il sostegno al sindaco Bucci al quale è legato da un rapporto da filo d’acciaio. Un modo per togliere dai giochi un candidato che poteva portare qualche preferenza in più alla difficile rincorsa progressista. Tutto a un mese dal voto, quando il candidato progressista, Ariel Dello Strologo, dovrebbe per alcuni sondaggi recuperare quasi 18 punti, pur in una previsione che vede ancora astenuti e indecisi sopra il 30 per cento.
Ora perché il candidato abbia accettato l’incarico manageriale, perché abbia trascurato non l’incompatibilità ma l’imbarazzo che avrebbe creato tra i suoi, non sembra un elemento di importanza fondamentale. Più importante capire cosa abbia scatenato il cortocircuito interno al Pd. Due analisi prevalgono. Da una parte la voglia di tornare a dire la propria in quel mondo dell’imprenditoria con il quale i contatti hanno smesso d’esistere con il ritiro politico dell’ex ministro e governatore Claudio Burlando. Un distacco che è cresciuto negli ultimi sette anni, da quel tracollo che ha visto il Pd perdere il governo della Liguria. Dall’altra una voglia di tagliare i ponti proprio con quel mondo, ritenuto troppo legato alla vecchia guardia, con un’opera di rinnovamento. Tanto che in alcuni sondaggi il Pd resta il primo partito in città: così se si votasse oggi per rinnovare Camera e Senato. Altro spunto: la credibilità del Pd prevale a livello nazionale, ma ancora non si riflette localmente. Così alla fine la sintesi migliore la fa un dirigente che all’ultima direzione del partito è sbottato: “Se ci facciamo dettare la linea dagli alleati, allora non siamo un partito che può vincere le elezioni”. Disanima cruda forse, ma che fa venire in mente le difficoltà a Roma, dove deve barcamenarsi in un esecutivo di coalizione, scisso tra la responsabilità di governare e la tentazione di riannodare i fili con la base. Eppure, i sondaggi, per le politiche, ancora oggi danno il Pd come primo partito a Genova. Troppo poco, probabilmente, per riconquistare Genova a giugno e la Liguria alle prossime regionali. E per sanare la crisi d’identità dei democratici.