La direzione del Pd
“Conte? È faticoso”. Letta si sfoga e prova a placare i malumori del Pd
Il partito ribolle: l'area di Orlando invoca un patto per vincolare il M5s. Ma il segretario: “Noi andiamo dritti sui nostri temi". Franceschini rinnova le ragioni dell'alleanza rossogialla: "Non è una condanna, è una scelta. Tanti dei nostri ex elettori ormai sono grillini". Al Nazareno si attendono le amministrative e la resa dei conti tra l'ex premier e Di Maio
Se ha lasciato che a definire il concetto, che lui s’è limitato solo a evocare con perfida reticenza democristiana, fossero gli altri, è perché il sentiero era stretto: difendere un alleato ormai sopportato a fatica da tutto il gruppo dirigente lo avrebbe infatti esposto al fuoco incrociato dei malumori interni, ma mettere a verbale le sue reali perplessità sulla condotta del compagno di viaggio che ha smarrito la bussola avrebbe rischiato di farli deflagrare, quei malumori. E insomma quando a Enrico Letta hanno fatto notare che nel corso dell’intera direzione non era mai stata pronunciata la parola “Conte”, il segretario ha risposto spiegando, però, che molte volte era stata pronunciata la parola “fatica”. Lo ha fatto del resto anche Dario Franceschini, che pure s’è preso la briga di puntellare un’unione, quella rossogialla, sempre più fatiscente.
Lo ha fatto, il ministro della Cultura, più che altro per ragioni tattiche. “Perché se davvero vogliamo provare ad approdare al proporzionale, dobbiamo togliere dal tavolo da un lato il sospetto che lo facciamo solo per non far vincere la destra, dall’altro il retropensiero per cui non vogliamo essere condannati a stare col M5s”. E invece da lì non si esce, insiste Franceschini. “L’alleanza col M5s non è una condanna, ma una decisione. Anche perché molti sostenitori dei grillini sono nostri ex elettori che noi ormai non saremmo in grado di riconquistare, e quindi restare col M5s è l’unico modo per allargare il campo”.
Si fa quel che si può per convincersi che non sia solo tattica, la ragione dello stare insieme. E in questo senso, forse, Letta si vede perfino scavalcato da chi vagheggia soluzioni per puntellare l’alleanza. L’istanza arriva soprattutto da sinistra: è Michele Bordo, orlandiano, il primo a proporre “un patto di coalizione da siglare nelle prossime settimane”. Ma anche Anna Ascani, che certo a sinistra non sta, dice che per rafforzare il collante rossogiallo “dobbiamo iniziare a discutere dalle priorità che ci uniscono, su tutti la battaglia per il salario minimo”. Tema certamente sentito, dai dirigenti dem, se anche Peppe Provenzano lo cita.
Solo che a Letta convince poco l’ipotesi di accompagnare il M5s, su questa via, e semmai punta sull’anticipo. Del resto anche un patto di convivenza, per quanto stringente, non vincolerebbe alla fedeltà un Conte che è sempre più indecifrabile, che rischia, a giudizio del Nazareno, di vanificare con la sua condotta temeraria, da descamisado con la pochette, quel lavoro di normalizzazione in chiave europeista del M5s. Forse si vedranno già domattina, i due ex premier: nel corso della colazione offerta dall’ambasciatore finlandese nella sua residenza alle porte di Villa Borghese, in occasione della visita della premier Sanna Marin. E forse sarà già quella l’occasione per ribadire quel che Letta ha già spiegato a Conte: e cioè che “sui temi strategici, come la politica estera, ci sono valori non negoziabili”, e che quello attuale è un Pd che “quando è convinto della bontà delle proprie battaglie progressiste, compresa quella per il termovalorizzatore a Roma, non arretra e non tentenna”. Che insomma lo zelo pedagogico nei confronti del M5s s’intende esaurito. E questo riguarda anche la lealtà verso il governo Draghi: “Perché salti nel buio noi non ne asseconderemo”, insiste Letta.
Con una fermezza che quasi lo espone ai dubbi di una parte del Pd. Quella che, ad esempio, per bocca della cuperliana Barbara Pollastrini invoca “maggiore autonomia rispetto all’esecutivo sui temi sociali”; quella che, ancora con Bordo, evoca lo spettro di Bersani e del 2013, dell’appiattimento sulla responsabilità, “perché di fronte ai distinguo e alle fughe in avanti degli altri partiti di maggioranza, anche noi dobbiamo sentirci liberi di insistere sui nostri temi identitari”. Perfino sulla cautela da osservare “per non lasciarci rappresentare in modo caricaturale come il partito con l’elmetto”, “per spiegare bene la nostra posizione a un mondo pacifista che è anche il nostro mondo”, c’è stato chi, come Antonio Misiani, s’è fatto sentire.
Il resto della discussione, se l’è portato via la questione dei referendum. Su cui Letta è stato abile a svicolare il giusto, a esprimere la sua sostanziale contrarietà ai quesiti, con una gradazione che va dalla netta opposizione a quello sulle misure cautelari alla assai più sfumata perplessità su quello che riguarda la Severino, assai sentito da molti sindaci dem, ma al dunque ribadendo che “il Pd non è una caserma”, che insomma ognuno faccia come crede.
Anche qui il sentiero del segretario è stretto, dunque. E allora si capisce che sul “dopo” non abbia detto se non lo stretto indispensabile. E cioè che “il bipolarismo esiste, a prescindere dalla legge elettorale che ci sarà”. E anche quando Cuperlo ha spiegato che “una riedizione dell’alleanza larga, magari senza l’ingombrante stampella della Lega ma comunque con una figura tecnica come quella di Draghi, farebbe venire meno le stesse ragioni fondative del Pd”, e anche quando Provenzano se l’è presa “con un pezzo di establishment mediatico ed economico, e anche con una certa burocrazia statale che vorrebbe portarci a grandi coalizioni permanenti”, Letta non s’è scomposto. Perché il “dopo” è una terra incognita. A partire da ciò che accadrà dopo le amministrative, e dalla possibile resa dei conti dentro il M5s tra Conte e Di Maio. Fino ad allora, fatica e pazienza. Pazienza e fatica.